Non ho la minima idea di dove stiamo andando
GPS andato. Indicazioni imprecise. Nessun "tragitto panoramico", "tragitto più veloce" da seguire. E, per quanto mi riguarda, io non ho la minima idea di dove stiamo andando.
Curva a gomito. Curva a gomito. Curve a gomito una dopo l'altra. E strade che in un momento, senza preavviso, cambiavano forma. Da brutte a strette. Da strette a strettissime. Da strettissime a senza uscita.
Che te ne accorgi solo quando sbatti sui muri, mica quando vedi il cartello. Quando è tardi. Quando sbatti sulle imposte logore di una casa che per qualche motivo qualcuno si ostina ancora ad abitare. Sulle occhiate curiose, minacciose, incazzate, di chi in quelle case ci vive e ti vede intrometterti. Che ci fa lì? Ecco appunto: che ci facciamo qui?
"Tilli ma dove cazzo stiamo andando?"
"Gira a destra…"
Dimmi dove girare. Ma dimmelo prima.
I nostri viaggi - e per me ogni tragitto in auto sopra i 60 chilometri era un viaggio - seguivano sempre lo stesso copione. Se guidava lei, io mi addormentavo, spiaccicato contro il finestrino come un gatto al sole. Se guidavo io, cosa più frequente, perché si seccava ad avermi svenuto sul sedile, lei aveva il compito di parlare con il navigatore, interpretando frecce e segnali come se fossero antiche rune.
Aveva il compito di dirmi "dove girare". Ma doveva dirmelo "subito", dirmelo "in tempo". Che nella mia testa era qualcosa di simile a "ora gira a destra, ancora 1km dritto, poi gira a sinistra…ecco intendo adesso, tra qualche metro, rallenta, ecco ora gira a sinistra".
Ma non andava sempre così. E spesso mi faceva imbestialire. Dava per scontato cose che per me non lo sono mai state. Come il fatto che se un cartello indica "città di questo tipo" e tu devi andare a "città di questo tipo", è scontato prendere in direzione "città di questo tipo".
"Ma perché non me lo hai detto?" urlavo.
"Ma c'è scritto!" urlava anche lei.
"Ma se ti ho detto dimmelo…" urlavo di nuovo.
E lei rideva, dandomi partita vinta ma sapendo di avere ragione.
Il peggio era quando mi avvertiva di prendere quella direzione all'ultimo secondo.
"Ecco, gira lì, in direzione 'città di questo tipo'".
E secondo me lo diceva sempre troppo tardi. All'ultimo. A volte ho avuto l'impressione che si divertisse a farlo. Aspettare l'ultimo centimetro di strada utile a sterzare per testare la mia prontezza di riflessi. O, forse, solo per vedermi incazzato e poter scoppiare in quella risata del cazzo di chi sa che ne ha combinata un'altra delle sue; e cazzo quanto mi mancano oggi quelle risate del cazzo.
A volte perdersi era il risultato più probabile.
"Tilli ma dove cazzo stiamo andando?"
"Qui, qui, tranquillo, ora vedrai che c'è una rotonda…"
"Siamo quasi arrivati, vedi quelle case illuminate?"
Lei aveva questa incredibile capacità, o forse questo terribile difetto: era schifosamente ottimista. In tutto. Fino a quando non ci ritrovavamo spiaccicati su questo o quel pavimento della vita, era convinta sarebbe andato tutto bene. Aveva la capacità di rimanere aggrappata al lieto fine sino all'ultimo secondo. Anche quando tutto sembrava delineato, le quote dell'insuccesso crollavano e i bookmakers non accettavano più scommesse.
Su qualsiasi cosa. Dalla fiamma del gas che diventa blu e ti dice che la bombola sta finendo, "no, vedrai che la pasta riusciamo a farla, domani poi ci facciamo portare le bombole nuove", al superare mesi fatti di uscite indecenti e zero entrate, “ma no, ce la facciamo”. Fino, ovviamente, al raggiungere una destinazione che sembrava facile e invece sono ore che giri in tondo tra curve a gomito e strade strette strettissime, “dai che siamo quasi arrivati”.
Sembrava uscita da un film. O da uno di quei libri motivazionali che continuano ad andare a ruba e nessuno capisce il motivo.
Anche senza averla mai incontrata, sembrava l'allieva prediletta di Carol Dweck, quella della "mentalità di crescita", quella per la quale bisogna approcciare agli insuccessi come "non è che non ce l'ho fatta, ANCORA non ce l'ho fatta".
"Ah non è questa la strada, allora benissimo sarà quella lì. Vedrai che cinque minuti e arriviamo".
Quando poi la mia pazienza si esauriva, la fiducia scricchiolava e l'ansia iniziava a montare come una marea, si giocava la carta del "fermiamo il passante".
Anche in questo caso c'era bisogno di sincronizzarci, e non sempre ci riuscivamo. Come con "gira qui" che mi diceva troppo tardi, lo stesso succedeva quando voleva chiedere informazioni.
È una cosa che faceva sempre. O forse è una cosa da donne, e c'è poco da fare. Pensano velocemente, e spesso sono convinte che gli uomini siano dotati di telepatia.
"Ma perché non ti sei fermato che chiedevamo?"
"A chi?"
"C'era lì quello fermo sulla strada. Te l'ho detto"
"A chi?"
Che poi quasi sempre io neanche lo avevo visto il tizio sulla strada.
Oppure, urlava “fermati” subito dopo che il tizio sulla strada lo avevamo passato.
E la vedevi dal finestrino a urlare. E il tizio, quasi sempre invecchiato e dall'udito scarso, che non capiva. E allora saltava giù dall'auto e la vedevi correre in direzione dell'ignaro malcapitato.
Faceva ridere solo a vederla. E spesso se ne accorgeva senza che nessuno glielo facesse notare. Così quasi sempre quello che vedeva il tipo era una donna che gli correva incontro ridendo e coprendosi il volto.
A volte, sempre per il solito motivo del "sincronizzarsi", succedeva che io partissi mentre il tizio stesse parlando. Lui era lì che dava indicazioni. Masticate male, in dialetto, confuse.
Lei ascoltava tutta attenta e con l'aria di chi aveva capito perfettamente.
"Dovete andare qui, poi lì, alla rotonda lì. Poi non la prima, non la seconda, non la strada stretta…"
E io nel frattempo borbottavo sempre più nervoso. "Sì, buonanotte…"
Lei cercava di rimanere seria. E poi diceva convinta: "Vai di là".
Anche se non ci azzeccava nulla con quanto aveva appena detto il tipo.
Io "vabbè" e ripartivo.
Altri km di curve e giri in tondo. Poi magari un altro tizio ancora. E il copione si ripeteva.
E poi, finalmente, succedeva.
A un tratto iniziavo a non ricevere più "gira qui" e "gira lì". Solo un singhiozzo trattenuto a stento. Una risata che borbottava come acqua in una pentola sul punto di bollire.
La vedevo accartocciarsi sul sedile, con le mani al volto e la testa tra le gambe, come un gambero che non sapeva più come smettere di ridere. Una risata che sembrava venire da un altro piano dell'esistenza.
"Oh allora?"
Ma in realtà a quel punto non chiedevo più niente. Avevo già capito. Aspettavo solo accadesse.
Risate. Risate del cazzo. Risate che rimbombavano nell'auto come quegli impianti truccati degli anni '90, con musica dance e canzoni napoletane che spaccavano i finestrini.
"Oddio mi sento male..." ansimava tra una risata e l'altra.
E rideva. Rideva. Senza riuscire nemmeno a parlare.
Quando finalmente ritrovava il fiato, lo ammetteva.
Non "ci siamo persi". Perché quello ormai era chiaro.
Diceva "Non ho la minima idea di dove stiamo andando".
E di nuovo risate. Risate del cazzo.
E cazzo quanto mi mancano oggi quelle risate del cazzo.
…
Non ho la minima idea di dove stiamo andando. Non ho la minima idea di come si superi un lutto.
Sono passati 493 giorni da quando Tilli non c'è più. 493 giorni senza quelle risate del cazzo che sembravano contenere l'essenza stessa della vita.
Anche da una sedia davanti al pc, o semplicemente a letto aspettando di prendere sonno, mi ritrovo a guidare. Cercando di imboccare strade che non so dove portino, chiedendo indicazioni a passanti che non comprendo, o a volte loro non comprendono me.
In questi giorni però sono successe alcune cose. Mi è tornata in mente questa storia e quelle parole lì, quelle risate: "Non ho la minima idea di dove stiamo andando".
E più ci penso più credo sia la cosa giusta da dire.
Quando ho avviato questa newsletter, una ventina di giorni dopo più o meno, dunque più o meno 470 giorni fa, l'ho fatto per dare voce a emozioni che nel nostro mondo vengono taciute, o nella migliore delle ipotesi sembrano sussurri in biblioteca.
Ho cercato risposte in libri, ricerche, conversazioni con persone che sembravano saperne più di me. Come un detective alla ricerca di indizi in un caso impossibile da risolvere.
Per certi versi mi “assolvo”.
Vengo da un mondo - la formazione e l'editoria legata al mondo business - dove si pretende di avere tutte le risposte. Dove le persone pagano per sentirsi dire cose intelligenti, per scoprire segreti che credono esistano. Ma più vado avanti, più mi rendo conto che questo mondo non funziona così.
Non ci sono risposte "giuste". Non ci sono itinerari raccomandati. Nulla che assomigli a "tragitto panoramico", "tragitto più veloce". Non ci sono indicazioni precise e se ci fossero - ma credo non ci siano - di sicuro non sono io a poterle dare.
Me ne rendo conto ad esempio quando le persone mi scrivono. Mi arrivano messaggi dolci, dolcissimi, senza uno scopo preciso se non quello di starmi accanto. Altri che condividono il loro dolore e le loro difficoltà.
Ecco, con questo tipo di messaggi, faccio fatica. Perché, davvero, non so cosa dire. Mi sento come un attore che ha dimenticato le sue battute proprio al momento di salire sul palco.
Ma d’altronde, abitare un mondo non ti rende un esperto di quel mondo, così come vivere in una casa non ti rende un architetto.
Puoi conoscerlo, certo questo sì. Puoi con il tempo iniziare a orientarti. Imparare i nomi delle strade, insidie principali e posti dove stare in pace e al fresco d'estate. Ma in realtà quello che impari è come funzioni tu in quel mondo e come funzioni quel mondo con te.
Pretendere di spiegarlo agli altri, oltre che ingiusto è inefficace.
Così pian pianino - oddio ci sono voluti 593 giorni - mi sto rendendo conto che quello che posso fare, e che faccio, è solo raccontare storie.
Pezzettini di passato, pezzettini di presente, pezzettini di futuro da provare a incastrare. Come frammenti di un puzzle cosmico che non sarà mai completo, ma che forse non deve esserlo.
Senza la pretesa che chi legga sobbalzi dalla sedia esclamando "ah è così che allora funziona…"
Mi basta sapere che, a volte, seppur con sfumature diverse, in "mondi diversi", qualcuno possa pensare sottovoce "sì lo sapevo", "l'ho vissuto anche io", "lo vivo anche io", "ci penso anche io", "mi sono perso anche io", "ah non sono solo io…".
Perché alla fine credo che la scrittura, le storie, newsletter come questa, abbiano questo obiettivo qui: non indicare per forza la strada ma condividere le difficoltà che incontriamo nel tragitto. Non per trovare risposte, ma per riconoscerci tutti in quell’esperienza di perdersi, di non sapere la strada, non sapere minimamente dove stiamo andando. Nell’essere tutti persi. Tutti persi. Tutti persi e fottuti insieme.
O, per dirla con James Baldwin: "le cose che ci tormentano di più sono proprio le cose che ci collegano a tutte le persone, a tutte le persone che siano mai state vive".
EXTRA (…dove si parla del non farmi sentire un idiota, e fare qualcosa in più…)
Ci sono quasi duemila persone che leggono questa newsletter. 🙏
È qualcosa di pazzesco, considerando anche i numeri di chi non solo ha cliccato “iscriviti” ma si prende davvero il tempo di leggermi. E molto spesso di rispondermi.
Come spesso ho detto e amo ripetere: mi fa sentire meno idiota nel condividere pubblicamente la mia vulnerabilità.
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Ogni volta che ti leggo penso che dovresti continuare a scrivere, per te, per noi. Ciao 🤍
“Non indicare per forza la strada ma condividere le difficoltà che incontriamo nel tragitto”. Una cosa molto profonda. Grazie per questa newsletter :)