Un deficit di empatia. E quell'umanità ribelle che non ci sta.
Aveva ragione Hanlon: quasi sempre la gente non è cattiva. È incompetente. Però possiamo fare ancora qualcosa...
A giorni alterni, e non chiedetemi perché, mi viene riferito che quel giorno in chiesa c’era tantissima gente. Segue quasi sempre una lista dettagliata di “tribù”: quelli della scuola, dell’università, della chiesa, dei social, del paese. Un sacco di “quelli”. A volte l’inquadratura si stringe su presenze inaspettate, altre volte emerge il gruppo dei “rappresentanti” – quelli che ti stringono la mano e ti bloccano per spiegare perché Tizio o Caia non sono potuti venire.
La morale che mi si vuole trasferire è chiara: era amatissima, non sei solo. Annuisco, ormai ho imparato. E per fortuna ho la strafottenza di disconnettermi dalle conversazioni che non mi interessano. Eppure, a tutta quella gente ci penso. A loro e a tutti quelli che, di fronte a un lutto, sono così educati da non mancare a una cerimonia. Non c'è nulla di male, sia chiaro. È solo che, quando sei dall'altra parte a ricevere condoglianze, non è la folla che fa la differenza.
Il leggendario venditore Joe Girard costruì la sua fortuna sul numero 250: la media, secondo lui, dei partecipanti a un funerale o matrimonio. Da lì deduceva l'impatto potenziale della reputazione di una persona. Ne parlava in termini commerciali, che qui non ci interessano. Ma quel numero mi torna in mente. Eravamo 250 quel giorno? Forse di più. Ma fossero stati 1000 o 10, per me non sarebbe cambiato nulla. Quel numero racconta, forse, un network accessibile per vendere qualcosa o ricevere una pacca sulla spalla. Non racconta chi conta davvero.
Tempo fa un amico mi diede un consiglio: “Preoccupati solo di chi piangerà al tuo funerale. Di fronte a una scelta, non ferire loro. Degli altri, sbattitene.” L'ho sempre seguito. Oggi però farei un passo avanti: preoccupati di chi sarà accanto a te, quando sarai tu a piangere.
C’è una frase triste e vera: i problemi sono di chi resta. Chi se ne va non soffre più, dicono quasi tutti. Chi resta, invece, affronta tutto il campionario: dolore, solitudine, problemi pratici, economici, logistici. Se pensi a chi piangerà al tuo funerale, la lista può essere lunga. Ma se pensi a chi resterà con te quando piangi chi hai amato, il discorso cambia. Si complica.
I 250 (o più) del funerale, quasi tutti, mi hanno detto: “per qualsiasi cosa chiamami”. Gentile, ma complesso. Spesso è come il "vediamoci" che dici a chi incontri per caso e volevi evitare. Altre volte è sincero, ma non funziona bene lo stesso. Perché se devo chiedere io... beh, come tra innamorati, forse non lo voglio più. E soprattutto, in certi momenti, la forza e la lucidità per chiedere aiuto semplicemente non ci sono.
E così la lista si sfoltisce. Rimane chi chiama. Chi c’è. Chi non aspetta. Chi agisce.
Ed eccoci al succo. Dopo più di un mese da quel giorno in prima fila, un paio di cose mi sembrano più chiare. La prima è che aveva ragione Hanlon: quasi sempre la gente non è cattiva. È incompetente. Il suo "rasoio" dice: «Non presumere mai cattiveria laddove basti la stupidità (o l'incompetenza)». Applicarlo al lutto aiuta a non incattivirsi con il mondo intero.
Ma il punto vero è che questa incompetenza è un problema collettivo, culturale. A furia di rimuovere morte e dolore, ne abbiamo fatto un tabù e non sappiamo più come comportarci. Le competenze che abbiamo sono obsolete, formali, spesso inutili: telegrammi, presenza muta al funerale, messaggi con emoji standard, frasi fatte ("non ci sono parole", "chiamami se hai bisogno", "non soffre più"), stare a distanza per "rispetto".
È una lista di comportamenti per non sbagliare, più che per aiutare. Evidenzia quanto consideriamo il lutto estraneo alla vita normale. Paradossalmente, celebriamo l'imparare dagli errori nel lavoro ("Non ho fallito, ho trovato 10.000 modi che non funzionano" - Edison), ma di fronte al dolore altrui ci trinceriamo nella paura di sbagliare. Preferiamo la cosa "non sbagliata" (stare lontani, dire frasi vuote) a quella potenzialmente "giusta" ma rischiosa (esserci, provare, magari sbagliare forma ma non sostanza). Quanti mi hanno scritto: "Rispetto il tuo dolore, per questo non disturbo..."? Capisco la sensibilità, a volte. Ma spesso è solo paura travestita da delicatezza. Mancanza di competenza emotiva.
Sarebbe bello un "approccio alla Edison" anche qui: provare ad aiutare, e se non funziona, dirsi "Ok, ho solo trovato un modo che non era utile adesso. Provo altro?"
Abbiamo un deficit di empatia, diceva Obama. La capacità di provare a mettersi nei panni dell’altro. Il coraggio di mettere da parte le proprie paure per connettersi davvero. Provare a fare la cosa giusta, non quella prevista dall'etichetta dell'incompetenza.
Una settimana dopo l'addio a Tilli, ho passato mezz'ora al telefono con un fioraio che voleva consegnare a casa una corona funebre arrivata in ritardo per un disguido. Tra i suoi “eh ma questi hanno pagato” e i miei (più o meno pazienti) “sì, ma cosa importa adesso?”, ho evitato la consegna solo promettendo di mentire al mittente se mai avesse chiesto. Incompetenza logistica ed empatica al suo meglio.
Nelle classi dei bambini, hanno organizzato raccolte fondi "per essere vicini", nonostante avessi detto che non servivano soldi. Nessuno*, però, ha chiesto se i bambini avessero bisogno di compagnia, di un aiuto concreto diverso dai soldi. La scuola, come Istituto Comprensivo, ha mandato un unico telegramma di "cordoglio" ai suoi tre alunni orfani. Stop.
Ultimo episodio, fresco fresco. Gita scolastica per mio figlio dodicenne. Io capisco male la circolare (errore mio, ci sta, la testa è quella che è in questo periodo) e lo porto a scuola invece che direttamente al punto di ritrovo esterno. Alle 10 mi chiama un prof: Niki vuole tornare a casa. Era rimasto a scuola mentre gli altri erano già al teatro. Nessuno che si fosse preoccupato per lui, sapendo la situazione. Nessuno che avesse pensato di fare un colpo di telefono al padre, magari intuendo possibili "casini" logistici o emotivi. Morale: lascio tutto, recupero la piccola, vado a scuola, firmo l'uscita, porto Niki al teatro. Missione compiuta, con annessa incazzatura. Chiamo i professori. Risposta unanime, quasi da manuale dell'incompetenza empatica: "Rispettiamo il vostro momento, pensavamo fosse inopportuno disturbare". Lì ho chiuso, contato fino a cento, e mi sono ricordato di Hanlon. Non sono cattivi, sono "solo" terribilmente incompetenti quando si tratta di dolore e vita reale.
Ma c’è speranza. Non fa tutto schifo. Ci sono le eccezioni che confermano la regola e, forse, illuminano la via. Matteo che scrive "non ci credo", poi "due ore e prendo l’aereo. Arrivo". E arriva davvero, mi sta accanto, sbriga cose pratiche, e ogni tanto chiede "Rompo i coglioni adesso, vero?" andandosene senza offendersi se la risposta è sì. La mamma di una compagna di mia figlia, diventata autista/cuoca/tata, il cui soprannome non può che essere “Ci-sono-io”, perché è quello che dice e fa. Un professore di mio figlio, mai visto prima, che scrive tre volte al giorno per chiedere come sta il bambino, se può fare qualcosa, se ho mangiato.
La lista potrebbe continuare. La morale, però, non è "ci sono persone buone". È chiederci: perché queste persone fanno ciò che fanno, mentre altre si fermano alla formalità o alla paura? È troppo facile dire "gli altri sono stronzi". La verità, credo, è che molti hanno paura: della morte, del dolore, di sbagliare, di essere invadenti. E si trincerano dietro la "delicatezza", applicando le regole dell'incompetenza.
Per andare oltre serve quella scintilla di empatia autentica che ti fa correre il rischio. Il rischio di sbagliare, di apparire indelicato, ma con l'intenzione di esserci davvero. Serve una piccola, necessaria ribellione contro la norma della distanza e della formalità.
È questa l'umanità ribelle che fa la differenza. Non cancella il dolore, non sistema tutto, ma rompe l'isolamento. Ed è rara, forse. Ma esiste. Ed è a quella che dobbiamo aggrapparci. I nostri sistemi non sono empatici. Dobbiamo provare a renderli più compassionevoli, parlando di più di lutto e dolore. Ma intanto, dobbiamo puntare forte su quelle persone che vanno oltre. Oltre le policy, la forma, le consuetudini. Su chi corre il rischio di apparire "inopportuno" pur di provare ad aiutare davvero.
Umani che si ribellano alle regole non scritte della paura e dell'imbarazzo. Continuiamo a temere macchine che si ribellano; dovremmo temere di più il giorno in cui smetteremo di essere ribelli noi. Cioè, umani.
Resta che hai scritto la verità con estrema lucidità, resta che è dannatamente dura per chi resta. Resta che siamo umani, resta che più ti fai domande più ti chiedi quelli intorno che non se ne fanno come vivono. Resta che alle volte è più facile per noi cercare di sorridere ed essere empatici piuttosto che far capire a chi non ci è arrivato perchè non ci è arrivato. Resta che purtroppo le rivoluzioni le fanno quelli che non vivono sul divano "birra, patatine e tv" che sono gli stessi che si fanno poche domande e io me ne faccio sempre troppe.
Volevo scrivertelo da perfetto sconosciuto quando ho ricevuto la prima email: "se ti va, ti ascolto al telefono in silenzio, senza commentare" poi mi son detto in fondo chi cazzo sono? Avrà tutti i suoi problemi da gestire piuttosto che rispondere a me.
Tempi duri generano uomini forti, uomini forti generano tempi felici. Tempi felici generano uomini deboli, uomini deboli creano tempi duri.
Non ti è di nessun aiuto, non risolve nessuno dei tuoi problemi, brindiamo alla vita, al coraggio e alla voglia di essere adulti\grandi e andare avanti nonostante le difficoltà.
Tocca rileggerla 6 volte per metabolizzare così tante verità… grazie degli spunti, e grazie per non fare sconti e non girarci attorno. Lunga, lunghissima vita ai ribelli.