Un deficit di empatia. E quell'umanità ribelle che non ci sta.
Aveva ragione Hanlon: quasi sempre la gente non è cattiva. È incompetente. Però possiamo fare ancora qualcosa...
A giorni alterni, e non chiedetemi perché, mi raccontano che quel giorno in chiesa c’era tantissima gente.
Quasi sempre segue anche una lista più o meno dettagliata di gruppi appartenenti a questa o quella “tribù”. Quelli della scuola, quelli dell’università, quelli della chiesa, quelli dei social, quelli del paese. Un sacco di “quelli” e di “tribù”.
A volte l’inquadratura si fa più stretta e salta fuori la presenza di persone che magari non ti aspettavi ed invece erano lì.
Altre volte tocca a un gruppo particolare, che riesce a farmi sorridere persino di questi tempi. Potremmo definirli “quelli in rappresentanza”.
Ricordo, persino io, di avere stretto la mano ad almeno una dozzina di persone che mi mettevano una mano sulle spalle come segno di conforto, ma che usavano la presa anche per evitare che potessi scappare prima che mi spiegassero “perché tizio non è potuto venire…”
Ad ogni modo, questa pare la morale che credo mi si voglia trasferire: c’era un sacco di gente.
Come a dire: “era amatissima”.
Come a dire: “non sei solo…”
Ho imparato abbastanza velocemente ad annuire ogni volta che sento questa storia e, fortunatamente, ho sempre avuto il talento e la strafottenza necessari per non prestare la minima attenzione alle conversazioni che non mi interessano.
Eppure, giorno dopo giorno, resoconto dopo resoconto, a tutta questa gente ben vestita in chiesa, che ha dovuto prendere giorni di permesso, riorganizzare l’agenda, districarsi nel traffico e imprecare per trovare parcheggio, mi capita di pensarci.
Non solo a “loro”. Ma a tutti coloro che di fronte a un lutto sono così educati, rispettosi e dolci da non mancare a una cerimonia.
Sia chiaro, non c’è nulla di male nel farlo.
È solo che quando sei dalla parte, quella di chi stringe mani e riceve “condoglianze”, non è questo che fa la differenza.
“Girard, cosa fa la differenza?”
Il leggendario commerciante di auto Joe Girard, riconosciuto come il miglior venditore del mondo dal Guinness dei primati, per anni ha fatto fortuna con un numero: 250.
A suo dire, sono 250 in media le persone che partecipano a un funerale o a un matrimonio. Da ciò, Girard deduceva che ciascuna persona nella sua vita conosce circa 250 persone che possono essere influenzate dalle sue opinioni ed esperienze. E che dunque, trattare bene una, o trattare male una, può avere un impatto “domino” imponente.
Girard ne parlava in termini economici e commerciali; aspetto che qui ovviamente non ci interessa.
Quel numero però, 250, mi torna in mente adesso.
Erano davvero 250 quel giorno al funerale?
Boh. Forse sì. A sentire i “resoconti” persino di più.
Sta di fatto che se fossero stati 1000 o appena 10, non avrebbe fatto differenza.
Non per me.
Non per chi dice addio.
Quel numero che Girard pensava fosse la pietra filosofale del commercio e del successo relazionale racconta solo di un network “facilmente” accessibile. Al quale forse puoi vendere una scopa, un’auto, proporre una polizza se sei un assicuratore. O ricevere una stretta di mano e una pacca sulle spalle al funerale della tua compagna.
Preoccupati di chi piangerà davvero al tuo funerale
Fondamentalmente quello che sto cercando di esplorare qui è: su chi possiamo contare? Per chi contiamo?
Una riflessione da non fare necessariamente in un momento triste come un funerale. Ma che con i funerali può avere molta attinenza.
Tempo fa un amico mi diede un consiglio che trovai utile ed illuminante. Mi disse: “preoccupati solo di chi piangerà al tuo funerale”.
Il senso è semplice: di fronte a ogni scelta, di fronte a un bivio nel quale sai scontenterai qualcuno e riceverai critiche da qualcun altro, prendi la strada che non ferisce quelli che ti vogliono da bene. Sbattitene di chi non conta…
Negli anni ho preso ogni decisione in questo modo. E devo dire di essermi trovato abbastanza bene. O, almeno, di non essermi mai pentito.
Oggi però ho scoperto che questo consiglio può ulteriormente fare un passo avanti.
Per quanto mi rendo conto che possa sembrare macabro, il mio consiglio è: preoccupati di chi sarà accanto a te quando sarai tu a piangere.
Problemi da vivi
C’è una frase molto triste e molto vera: i problemi sono di chi resta.
Piangiamo i nostri cari che non ci sono più. Ci si stringe il cuore quando vanno via. Anche chi non era così vicino si commuove e prova infinita tenerezza verso una vita che si interrompe e verso tutte quelle cose che potevano ancora fare.
Eppure, al di là di ogni narrazione personale e religiosa, quasi tutti concordano che ormai “non soffrono più”.
Chi resta invece soffre eccome.
E dei problemi ha tutto il campionario: emotivi, sociali, economici, logistici.
Se pensi a chi piangerà al tuo funerale: potresti inserire in una determinata lista tantissime persone. E, tranne poche eccezioni, ci azzeccheresti pure.
Ma se invece pensi a chi sarà con te quando piangi chi hai amato, beh il discorso è molto diverso e molto più complicato.
“Per qualsiasi cosa chiamami…”
I 250 o più partecipanti al funerale, con meno o più formalità in base al livello di confidenza, mi han detto tutti la stessa cosa: “per qualsiasi cosa chiamami”.
Anche questo è molto gentile.
Ma molto complesso.
“Chiamami” a volte non è più né meno che “vediamoci ogni tanto” che dici a quelle persone che incontri per strada, con i quali non ti vedi da tempo e che porca troia non sei proprio riuscito ad evitare.
Altre volte è una proposta sincera di aiuto.
In entrambi i casi non funziona bene.
Con i primi, ovviamente sai che non li chiamerai mai.
I secondi, beh se devo chiederlo… non lo voglio più. Come si dice “tra innamorati”.
Ma con la complicazione che in certi momenti la forza e la voglia di chiedere non ce l’hai proprio.
E a questo punto la nostra famosa lista dei “250 o più” si sfoltisce drasticamente.
Rimane chi chiama.
Chi c’è.
Chi non aspetta che sia tu a chiamare.
Gentili, premurosi e incompetenti
Ed eccoci al succo del discorso. Dopo un mese e più da quel giorno in abito scuro seduto in prima fila a stringere mani, ecco un paio di cose che mi sembra di aver capito.
La prima è che aveva ragione Hanlon: quasi sempre la gente non è cattiva. È incompetente.
La Legge (o rasoio) di Hanlon, per chi non lo sapesse, è una variazione del Rasoio di Occam, il principio filosofico che afferma che la spiegazione più semplice di un fenomeno è generalmente la migliore.
Nella versione di Hanlon, l'idea alla base è che è più probabile che le persone commettano errori o siano ignoranti piuttosto che malvagie.
«Non presumere mai cattiveria laddove basti la stupidità.»
Questo approccio, nella vita di tutti i giorni può aiutare a prevenire inutili conflitti e favorire una risoluzione più pacifica dei problemi. Durante un lutto, aiuta a non trasformarsi una brutta persona che odia l’umanità 🙂
Ma il vero punto è che, come spesso diciamo quando parliamo di “grandi questioni”, anche in questo caso è un problema collettivo. Culturale.
A furia di non parlare di morte e di dolore, ne abbiamo fatto un un tabù e non sappiamo più come comportarci. Non siamo cattivi. Siamo incompetenti. Quelle poche competenze che abbiamo a disposizione sono obsolete, formali e inutili:
Mandare un telegramma
Presentarsi in chiesa al funerale
Mandare un messaggio WhatsApp con le mani giunte e un cuoricino
Dire “non ci sono parole”
Dire “chiamami se hai bisogno”
Dire “lei/lui/loro non soffrono più…”
Stare lontani (a debita distanza).
“Rispetto il tuo dolore ergo sum (lontano)”
La lista di sopra, che ovviamente potrebbe continuare, non è una lista di comportamenti necessariamente sbagliati. Semmai è una lista di di cose “non sbagliate”, più che di cose “giuste”.
Una lista per evitare di sbagliare più che per aiutare davvero.
Il che, ancora una volta, evidenzia quanto siamo indietro, impreparati e incompetenti quando si parla di morte e di lutto. E quanto lo consideriamo qualcosa di estraneo alla vita e a tutte quelle dinamiche che ci guidano nella vita di ogni giorno.
Da anni ad esempio, ci sentiamo dire che si impara tramite gli errori. Che il fallimento non è una lettera scarlatta ma la dimostrazione che ci hai provato.
"Non ho fallito. Ho solo trovato 10.000 modi che non funzionano", la frase di Edison, inventore della lampadina, ingombra slide e bacheche social in maniera monotona e ridondante. A un certo punto ci siamo persino convinti che sia così.
Eppure, di fronte al lutto, la strada è quella di chiudersi in difesa. Preferire “non sbagliare” che fare la cosa giusta.
Se scrivessi su un foglio tutte le persone che mi hanno scritto “rispetto il tuo dolore… per questo non ti chiamo/non vengo/non chiedo…” potrei farci un libro.
Capisco bene che molte volte si tratti davvero di una sensibilità spiccata, e di una difficoltà emotiva nel relazionarsi con chi sta male.
Ma la maggior parte delle volte, ne sono convinto, credo sia riconducibile a quella storia di “mancate competenze” e alla voglia/paura/esigenza di non sbagliare.
Sarebbe bello ci fosse anche in questi momenti, per quanto tristi e delicati, un “approccio alla Edison”.
Che ne so, un tipo che mi proponga un qualcosa che pensa mi sia di aiuto. E una volta compreso che non è questo ciò che voglio, si dica “vabbè: ho solo trovato un modo che non è di aiuto…”
Un deficit di empatia
Per dirla con Obama: abbiamo un deficit di empatia.
La capacità di mettersi nei panni dell’altro.
Anzi, a mio avviso più corretto, specie in queste situazioni, la capacità di provare a mettersi nei panni dell’altro.
La capacità e il coraggio di provare a mettere da parte preoccupazioni e paure personali per connettersi agli altri.
Provare a fare la cosa giusta anziché ciò che si pensa conforme all’etichetta o almeno non errato.
Una settimana dopo aver detto addio alla mia compagna, con i bambini nel pieno di un terremoto logistico ed emotivo, ho litigato con un fioraio.
Voleva consegnare a casa una corona funebre e, a quanto ho capito, c’era stato un inghippo con l’indirizzo di spedizione ed era già in ritardo con la consegna. Avrò passato mezz’ora buona al telefono tra lui che “eh ma questi hanno pagato” e io che dicevo “sì, ma che ne fotte”.
Alla fine sono riuscito ad evitare la consegna in cambio di una solenne promessa: se mai il mittente me lo avesse chiesto, avrei dovuto rispondere “sì, i fiori sono arrivati…”
Nelle classi dei bambini, hanno organizzato una raccolta fondi “per essere vicini”. E lo hanno fatto nonostante avessi detto subito che “grazie, ma non ne abbiamo bisogno”. In compenso, nessuno* si è preoccupato di chiedere se i bambini avessero bisogno di compagnia o se potessero aiutare in maniera diversa.
La scuola ha invece approfittato dell’essere Istituto Comprensivo per mandare un unico telegramma. Esprimendo così “cordoglio” ai loro tre alunni di 3, 10 e 12 anni. Che altro? Nulla.
Aggiornamento in corsa, storia proprio dell’ultimo minuto, di nuovo a scuola. Oggi c’era la proiezione del cortometraggio realizzato dai ragazzi, una piccola scintilla di motivazione per mio figlio, che già di norma non ha mai amato andare a scuola.
Il programma prevedeva che i bambini venissero portati al teatro con il pullman. O almeno così avevo capito…
Ok, errore mio. C’era una circolare che lo spiegava: l’appuntamento per i ragazzi che avevano partecipato al progetto non era a scuola ma da un’altra parte.
Per farla breve: porto mio figlio a scuola alle 8, alle 10 mi telefona un professore per dire che il bambino vuole tornare a casa.
Ma come? Non è alla proiezione del cinema?
Per farla ancora breve: nessuno che si sia preoccupato di un pirla - bambino di 12 anni che da un mese ha perso la mamma - che ha mancato l’appuntamento…
Nessuno che qualche giorno prima si sia preso la briga di capire se il papà, tra mille sbattimenti e comprensibili casini, avesse capito il programma della giornata.
Per farla ancora una volta breve: lascio tutto ciò che ho da fare - compreso la scrittura di questa newsletter - prendo la bimba di 3 anni, mi precipito a scuola, firmo per fare uscire Niki da scuola, lo porto direttamente io al teatro. Missione compiuta!
Di ritorno in auto chiamo i professori e il mio messaggio, in un certo senso, è più o meno quello che ho scritto sin qui. Ok, forse solo un po’ meno soft e con qualche parola colorita in più.
Risposta unanime: noi non è che non siamo vicini, ma rispettiamo il vostro momento e pensavamo fosse inopportuno disturbare. 🤔
Qui è dove ho cortesemente chiuso la telefonata, contato fino a 100 e detto tra me e me: vabbè, non sono cattivi. Ha solo ragione Hanlon: sono incompetenti.
Con la morte, il dolore, il lutto, siamo tutti incompetenti. Ma c’è speranza
Non fa tutto schifo. C’è speranza.
Anche se pensandoci le eccezioni confermano la regola e illuminano ancora di più il problema.
Matteo, appena saputo, mi ha scritto “non ci credo”. Poi un altro messaggio. C’era scritto “due ore e prendo l’aereo. Arrivo”. È venuto qui, mi è stato accanto. Ha sbrigato con me le cose burocratiche. E di tanto in tanto mi chiedeva: “rompo i coglioni adesso, vero?” e si dileguava senza sentirsi per questo offeso.
La mamma di una compagna di mia figlia è diventata in questo mese autista/cuoca/tata e se dovessi darle un soprannome suggerirei “ci-sono-io”. Perché è quello che dice quando vede che sono in difficoltà a giostrarmi con gli orari degli altri bambini, a preparare un pranzo per un rientro, a portarla alla villa con le amiche per farla distrarre.
Un professore di mio figlio, che non avevo mai visto, appena avuto il mio numero ha iniziato a scrivermi ogni giorno per tre volte al giorno. Chiede come sta il bambino. Se può fare qualcosa. Se ho mangiato. Se ho voglia di prendere un caffè insieme.
Anche qui la lista potrebbe continuare.
La morale però non è: “non siamo tutti cattivi… ci sono persone buone”.
Non è dire: “ogni tanto trovi persone buone che ti aiuteranno davvero e vorranno starti vicine”.
Molto più utile è ragionare su cosa ci sia dietro. Sul perché certe persone fanno ciò che fanno e altre no.
Ed è troppo facile, per quanto a volte potrebbe essere proprio così, dire “gli altri sono stronzi”.
La verità, credo, è che la maggior parte delle persone ha terribilmente paura. Della morte, del lutto, del dolore. Di sbagliare.
Stanno lontane, si trincerano dietro la “delicatezza”, semplicemente rispondendo a quella mancanza di “competenze”; cercando sempre di fare la cosa “non sbagliata” anziché fare la cosa giusta.
Come dicevo prima, i nostri sistemi sono pensati così.
Lo sono anche le persone che li governano e quelle che le vivono.
Per stare vicini, per rischiare di sbagliare, per dire “vabbè: ho solo trovato un modo che non è di aiuto…” servirebbe quell’empatia autentica che ti porta a prenderti dei rischi.
Serve una scintilla di ribellione.
Che poi, se ci pensiamo, non è altro che l’essenza umana.
E questo, nonostante io stia parlando di lutto e di una esperienza personale, è un tema estremamente attuale e rilevante.
Umanità ribelle
I nostri sistemi non sono empatici. Dobbiamo cercare di renderli empatici, parlando di lutto e di dolore, di renderli compassionevoli - un progetto che la mia amica Michela Spagnolo porta avanti da tempo con After.
Ma intanto possiamo e dobbiamo aggrapparci con forza a quelle persone che vanno oltre. Oltre i sistemi, le prassi, le policy, la forma, le abitudini, le consuetudini e procedure.
Su quelle persone che corrono il rischio di apparire “indelicate” tanto vogliono provare ad essere di aiuto.
Bisogna puntare forte su queste persone qui, su quell’umanità ribelle. Quell’umanità che per altri può sembrare “inopportuna” ma sta solo facendo il suo lavoro: colma quel gap di empatia lì.
Umani che si ribellano. Proprio così.
Continuiamo ad avere paure delle macchine che si possano ribellare. Dovremmo temere il contrario: il giorno in cui smetteremo di essere ribelli. Cioè umani.
(…dove si parla del non farmi sentire un idiota, e fare qualcosa in più…)
Ci sono quasi duemila persone che leggono questa newsletter. 🙏
È qualcosa di pazzesco, considerando anche i numeri di chi non solo ha cliccato “iscriviti” ma si prende davvero il tempo di leggermi. E molto spesso di rispondermi.
Come spesso ho detto e amo ripetere: mi fa sentire meno idiota nel condividere pubblicamente la mia vulnerabilità.
Spinto da questo affetto, avevo avviato anche un piano per sostenermi via Substack con un abbonamento. Ma non ha funzionato. E non credo possa funzionare.
Ogni abbonamento mi fa stare male. Perché in qualche modo mi riporta sul quel terreno del “ti do questo, tu mi dai questo”. E nella mia situazione non sempre riesco a garantirlo.
Quest’ultimo anno però mi ha insegnato che vivere il lutto richiede un tipo di forza e sostegno che va oltre.
Così come la possibilità di continuare a scrivere questa newsletter.
Per questo motivo, ho deciso di offrire un’opzione diversa: una donazione libera - una tantum, non ricorrente.
Un gesto di empatia non vincolato da obiettivi specifici o promesse di ricompensa.
Un sostegno diretto, semplice e sincero.
Se ti va, puoi farlo da qui.
…
*Non è sempre una questione di soldi.
Ci sono anche diversi modi gratuiti ma altrettanto potenti per darmi una mano:
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Ad ogni modo, se sei arrivato a leggere sin qui, hai già fatto tanto. Poco o tanto che sia hai contribuito a farmi sentire meno solo. Meno idiota.
Resta che hai scritto la verità con estrema lucidità, resta che è dannatamente dura per chi resta. Resta che siamo umani, resta che più ti fai domande più ti chiedi quelli intorno che non se ne fanno come vivono. Resta che alle volte è più facile per noi cercare di sorridere ed essere empatici piuttosto che far capire a chi non ci è arrivato perchè non ci è arrivato. Resta che purtroppo le rivoluzioni le fanno quelli che non vivono sul divano "birra, patatine e tv" che sono gli stessi che si fanno poche domande e io me ne faccio sempre troppe.
Volevo scrivertelo da perfetto sconosciuto quando ho ricevuto la prima email: "se ti va, ti ascolto al telefono in silenzio, senza commentare" poi mi son detto in fondo chi cazzo sono? Avrà tutti i suoi problemi da gestire piuttosto che rispondere a me.
Tempi duri generano uomini forti, uomini forti generano tempi felici. Tempi felici generano uomini deboli, uomini deboli creano tempi duri.
Non ti è di nessun aiuto, non risolve nessuno dei tuoi problemi, brindiamo alla vita, al coraggio e alla voglia di essere adulti\grandi e andare avanti nonostante le difficoltà.
Tocca rileggerla 6 volte per metabolizzare così tante verità… grazie degli spunti, e grazie per non fare sconti e non girarci attorno. Lunga, lunghissima vita ai ribelli.