Ti ricordi mamma e papà?
A un certo punto di questo viaggio, non so dire precisamente quando, Cami mi guarda e dice: “ti ricordi mamma e papà?"
A un certo punto di questo viaggio, non so dire precisamente quando, Cami, ricci capricciosi, occhioni vispi, 3 anni e mezzo, quasi quattro, su questa terra, mi guarda e dice: “ti ricordi mamma e papà?”
E va via veloce. Si fa strada tra uno o due cani per cercare le sue cose vicino al camino e tornare ai suoi giochi da bimba.
E mi lascia lì. A pensare.
Come se fosse facile dare una risposta.
…
Ci provo oggi.
Dopo tanto tempo - lo so - che sto zitto su questi canali.
Che domande, oh.
Quanta precisione chirurgica sanno avere i più piccoli.
Roba che i grandi non si avvicinano neppure.
Nemmeno io.
E, infatti, per buona parte di questo viaggio, non ci avevo neppure pensato.
Già, il viaggio.
Che viaggio!
Uno o due giorni dopo, mi misi a dare un’occhiata a cosa mi sarebbe aspettato.
Come quando inizi a sentire una fitta strana e chiedi a Google cosa potrebbe essere; perchè vuoi sapere… ma sino a un certo punto.
O come quando hai appena prenotato un ristorante e vai a dare un’occhiata alle recensioni perché vuoi sapere cosa ti aspetta.
O come quando stai per andare dall’altra parte d’Italia, o del mondo, e vuoi capire se ti serve una giacca pesante o devi per forza vestirti a cipolla.
Nel mio caso volevo sapere in quanto tempo ne sarei uscito…
In testa avevo un numero che mi faceva paura. Una storia sentita mi pare in un film, una regola per la quale bisogna mettere in conto un mese per ogni anno vissuto insieme. Insomma, secondo questa storia, o a questo film, mi servivano 20 mesi per tornare in pista, o qualcosa di simile.
Girovagando su google, credo di aver trovato persino una qualche conferma. Per lo più, le risposte alle mie domande erano di tipo classico. Il ciclo del dolore, le fasi del lutto. Dall’immancabile Freud - ci sono tre fasi che vanno dal diniego a quella di distacco - a quelle più approfondite che di fasi ne elencano cinque o addirittura sette.
Le postille però dicevano tutte: “dipende”. Ovviamente è soggettivo.
“Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo" diceva Tolstoj. E lo avrebbe certamente detto anche del lutto: “ogni vedova/o è infelice a modo suo”.
Ad ogni modo, questa fase di ricerca di risposte è terminata presto. Uno o due giorni in più e ho capito chiaramente che più che domande mi serviva dare risposte.
A cose molto concrete: robe burocratiche, logistiche, economiche.
E cose molto importanti, tipo “come stanno i miei figli e ora che devo fare…”
Ancora alcuni giorni dopo, e poi settimane dopo, e poi mesi dopo, e il viaggio si è rivelato di tipo diverso. Persino più duro del previsto.
Sul momento rispondi. Reagisci. A furia di adrenalina, senso di responsabilità, pillole di stoicismo e rabbia.
Poi piano piano inizi pure a sentirti a buon punto.
Inizi nonostante tutto a pensare che per quanto credevi fosse impossibile sei ancora in pista, ancora vivo.
Sei ancora nel viaggio che non avevi prenotato ma tutto sommato stai andando bene.
“Dai, dai che ce la fai!”
Inizi a guardarti indietro per vedere cosa ti sei lasciato alle spalle.
Se questo viaggio fosse su mare, potremmo metterla così: la prima preoccupazione è quella di non superare la tempesta. Sei quasi certo andrà tutto a puttane, finirai in acqua, in mezzo ai pesci, nella migliore situazione ti tirerà su un’imbarcazione di zingari esausto ma più probabilmente perderai i sensi e finirà tutto.
Questa però è la prima parte. C’è anche un seguito.
Il vento cala, il mare si appiattisce, spunta il sole e sei ancora vivo. Salvo.
Salvezza ottenuta, inizi però a dover fare i conti con un nuovo obiettivo: come torno a casa? A che serve rimanere vivi in mezzo al mare?
Qui è dove si inserisce un’altra domanda. Quella di prima. Quella di una bambina che tra un gioco e un altro ti lancia un sasso in piena faccia: “ti ricordi mamma e papà?”
Work Now, Cry Later
In Alternative, il mio amico Seba mise giù una regoletta semplice per tempi incerti e turbolenti: “3 metri, 3 giorni”. Come a dire che quando intorno è tutto così nebuloso e non puoi fare piani a lungo termine, l’unica cosa sulla quale hai potere è ciò che ti è vicino, anzi vicinissimo. A 3 metri e 3 giorni…
Qualcosa di simile è l’idea dello “Step now”, che suggerisce di dimenticarsi dei tantissimi problemi che ti aspettano e iniziare risolvendone uno; dal primo passo.
In Africa intendono qualcosa di simile quando dicono: “come si mangia un elefante? Un boccone alla volta”.
Nella prima parte del viaggio, sin qui, e in parte direi lo sto ancora facendo, mi sono attenuto a queste semplice regole.
Intanto sbrigo questo. Intanto prepariamo il pranzo. Intanto paghiamo queste robe…
E, come detto, ha funzionato. Almeno in parte.
In parte no.
Per due motivi.
Il primo, molto semplice: prima o poi devi fare conto anche con gli altri problemi.
Il secondo, meno intuitivo: quali problemi realmente hai e ti troverai ad affrontare?
Pensavo sarebbe stato impossibile cucinare pranzo e cena.
Pensavo che la piccola avrebbe pianto di notte chiamando “mamma”.
Che sarebbe stato un casino aspettare il Natale - e invece tutto sommato no dai: abbiamo già visto il primo film natalizio e settimana prossima facciamo persino l’albero.
Non avevo considerato i problemi secondari.
Cosa succede quando “step by step” inizi a spuntare la lista delle emergenze e delle complessità?
Succede che arriva tua figlia e non ti chieda di “mamma”. Ti chieda di “te e mamma”.
“Ti ricordi mamma e papà?”
A un certo punto di questo viaggio, non so dire precisamente quando, Cami, ricci capricciosi, occhioni vispi, 3 anni e mezzo, quasi quattro, su questa terra, mi guarda e dice: “ti ricordi mamma e papà?”
E va via veloce. Si fa strada tra uno o due cani per cercare le sue cose vicino al camino e tornare ai suoi giochi da bimba.
E mi lascia lì. A pensare.
Come se fosse facile dare una risposta.
…
Io mi fermo a pensare.
Mi passo una mano tra i capelli come se aiutasse a trovare risposte.
Mi accendo una sigaretta.
Mi siedo.
Mi alzo.
Mi siedo di nuovo e tiro un boccone di fumo più forte.
Lei lascia una bambola a terra e, forse delusa della mia poca brillantezza, torna a spiegarsi.
“Ti ricordi mamma e papà che dormivano con me nel lettone?”
“Ti ricordi mamma e papà che sentivano la musica e io ballavo?”
E altri, tanti, tanti, “ti ricordi…?” in sequenza.
Tu pensi che a una bambina mancherà mamma.
Ed è chiaramente così.
Ma le mancherà molto di più.
Le mancherà “mamma e papà”.
Tu pensi che ti mancherà la tua compagna di sempre.
Ed è chiaramente così.
Ma ti mancherà molto, molto, di più.
Ti mancherà chi eri insieme a Lei.
Che non è solo il fatto di essere/vivere la coppia.
Non è solo il fatto di poter contare sul partner. Scherzare, divertirsi, dormire insieme.
Quello che scopri a un certo punto del viaggio, quando il vento cala, è che la mancanza più forte sei proprio tu.
Che sei in lutto per la tua compagna.
Ma in fondo sarebbe più preciso dire che sei in lutto per te.
Sei quello che è rimasto. E quello che se ne è andato allo stesso tempo.
E a fartelo capire non è stata una ricerca pubblicata sull’Oxford Journals.
Ma una bambina con ricci capricciosi, occhioni vispi, 3 anni e mezzo, quasi quattro, su questa terra.
Che ti guarda e dice: “ti ricordi mamma e papà?”
Ed è tutto diverso.
(…dove si parla del non farmi sentire un idiota, e fare qualcosa in più…)
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Ad ogni modo, se sei arrivato a leggere sin qui, hai già fatto tanto. Poco o tanto che sia hai contribuito a farmi sentire meno solo. Meno idiota.
Davide ti leggo sempre con interesse e vorrei leggere di più ,vorrei vedere anche i bambini nel suo ambiente casa , com'è ci aveva abituato Italia ,nel quotidiano so che non è possibile ma mi siete rimasti nel mio cuore ,non oh consigli da darti non oh passato il dolore della perdita del coniuge , immagino ma no so ,un abbraccio a tutti con affetto
È bello leggerti. Un abbraccio