Soffrire male
Rimettersi in carreggiata o continuare a essere vittima. Cosa aspettarsi quando si soffre, e cosa si aspettano gli altri.
Pensi che ci siano cose che ti spaccherebbero il cuore. Lo farebbero in mille pezzi. Sentiresti un dolore fortissimo e poi basta, finirebbe tutto. Moriresti. Moriresti per un dolore troppo forte da sopportare. E poi invece succede davvero, ma non succede nulla. Il tuo cuore rimane lì, intatto. Fisicamente integro. Continua a fare il suo lavoro. Continua a battere, e mantenerti in vita. E poi lo scopri: è questo il vero problema.
Lei sognava tante cose. Voleva fare tante cose. Essere tante cose. Una è riuscita decisamente a farla, per tre volte: essere mamma. È stata un po’ la sua grande vittoria, e la sua grande battaglia. La nostra.
Il primo figlio è stato frutto dell’incoscienza, la mia intendo. Lei lo voleva più di ogni cosa. Io sì, no, boh. Avevo 25 anni, una vita da decifrare, cresciuto nella generazione del "sei sempre troppo giovane". Alla fine vinse lei. Divenne mamma. E dopo iniziò a sognare, chiedere e ottenere di diventarlo ancora. E iniziarono le mie ansie, i miei problemi, le nostre battaglie. Io pensavo di aver visto già tutto. Lei che fosse solo l’inizio. Un viaggio che non mi dispiaceva, ma mi spaventava.
E non tanto per il diventare padre in sé. Ma per il peso, l'ansia. La prima sera che portammo a casa il bambino, catapultato in un universo nuovo. Mentre lei lo guardava incantata nella culla, a me venne in mente la scuola guida. Quanta fatica, quanti controlli per avere il diritto di guidare una scatoletta di ferro! Giusto, per carità. Ma per gestire una vita? Ti presenti in banca per un prestito e ti rivoltano come un calzino. Per un figlio, invece, nessun permesso, nessuna patente. Potevamo essere due incoscienti qualsiasi, eppure eravamo genitori legittimi, con una vita minuscola che dipendeva da noi.
La prima notte non chiusi occhio. Né la seconda. Né tante altre dopo. Anche ora, a volte. Il primo anno fu paura costante. Ogni notte il bambino strillava prima di addormentarsi. E quando finalmente crollava, stringendo il mio mignolo, iniziavano i miei, di problemi. E ora che fa? Respira ancora? E se mi addormento e succede qualcosa? Passavo la notte sperando dormisse, e subito dopo sperando piangesse per essere sicuro fosse vivo. Quando c'era silenzio, il mio cuore si fermava. Respira? E tra il pensarlo e il controllare, si fermava davvero. Parlami di figli e mi viene in mente quella sensazione: un cuore in attesa, sospeso.
Le battaglie per averne altri riguardavano questo. Ma non solo il battito di un neonato. Anche ciò che accadeva prima. Vedere lei cambiare forma, la pancia enorme, la respirazione affannosa, la pressione fuori controllo. Ogni visita dal ginecologo era una lista di attenzioni e una mia notte insonne. E poi il momento del parto. Lei che entrava in sala operatoria (sempre cesareo), e io fuori con quella cosa congelata nel petto. Oddio. Pensavo che l'ultima battuta scema potesse essere l'ultima davvero. Niente più baci, niente più sguardi tra amore e presa in giro per la mia ansia. Ed è lì che pensavo: "Se succede qualcosa, muoio". Immaginavo la scena: qualcuno che esce, l'aria cupa, io che sento una fitta, perdo i sensi, mi ritrovo dall'altra parte.
E poi un giorno, senza sala parto, succede davvero. E io ci penso ogni notte. Non tanto al fatto che sia successo. Ma al fatto che il mio cuore sia rimasto fermo lì, a continuare il suo lavoro.
C’è gente che a queste cose non ci pensa. I normali. O forse è normale che qualcuno ci pensi e qualcuno no. Ma credo sia plausibile che chi pensa al peggio si concentri sull'impatto. Sull'emergere del dolore. Sullo scontro imprevisto con quel cazzo di Iceberg. Boom. “Quanto male farà?” “Di sicuro ci rimango secco”. Pochi immaginano cosa accade dopo. E quel dopo lo scopri piano piano.
Pensi che certe cose ti spaccherebbero il cuore in mille pezzi. Che moriresti per il dolore. E poi succede, ma il cuore resta intatto. Continua a battere. E ti mantiene in vita. E allora lo scopri: è questo il vero problema. Avevo immaginato il momento dello schianto. Non avevo mai immaginato cosa sarebbe successo se non mi fossi schiantato. Se il mio cuore avesse ripreso il lavoro.
E per quanto sia forte da dire, è questo il vero problema che vivo da un anno e più. Non aver subito un dolore, ma dovergli sopravvivere. Continuare a vivere, nonostante tutto. Non ero preparato. Non lo sono adesso. E non è solo dire “nessuno è preparato”. È che puoi anche immaginare l'iceberg, con un po' di pessimismo o senso del macabro. Ma quello che succede dopo, no. Ti tocca scoprirlo, passo dopo passo.
Qualche settimana fa sono finito al pronto soccorso. Dolore al braccio sospetto, malessere, sintomi "confermati su Google", e la solita ansia. E sono finito proprio lì. Stesso ospedale, stesso reparto della rianimazione. Alla fine non era niente di grave. Mi hanno lasciato in attesa per ore. Tempo per pensare. Rivivere. Ero a un passo dal lettino dove l'avrebbero dovuta rianimare, da quello dove le ho detto addio. E anche lì, ho pensato che certe cose ti ammazzano. Ma non è successo. Dolore forte, sì. Ma il cuore ha continuato il suo lavoro da bravo scolaro.
Il tema è sempre lo stesso: la differenza tra "avere un dolore" e "vivere con un dolore". Enfatizziamo il primo, l'impatto acuto. Non comprendiamo il secondo: il dolore che non passa, che non migliora, che sembra sempre uguale e quindi, per gli altri, quasi non più preoccupante. Quanto dura un dolore? Quanto deve durare? Quanto è giusto continuare a soffrire? Domande esistenziali, forse sciocche. Ma tremendamente concrete nel mondo in cui viviamo.
Gli ultimi due mesi sono stati difficili. Spiega anche perché ho abbandonato temporaneamente questa newsletter, cosa che mi fa stare male, visto l'affetto ricevuto. Colpa dell’estate, dei compleanni. Il 27 Giugno sarebbe stato il suo, un carnevale di festeggiamenti anticipati come da tradizione. Il 28 Luglio è stato il mio. 40 anni. Avrebbe significato un altro carnevale, imposto da lei. E così ho passato due mesi a pensare, ripensare, fare i conti. Con il tempo passato.
Ne è passato di tempo. Un anno e più. Non basta? Non basta per riprendersi dallo scontro con l'iceberg e accettare di essere ancora qui? Non basta per svestire i panni del dolente, della vittima, e tornare in carreggiata?
L’altro giorno me lo ha detto uno dei miei più cari amici, con tatto e gentilezza: “Quando vuoi rimetterti in carreggiata io ci sono…”. Il che denota rispetto per i miei tempi. Ma rivela anche l'aspettativa sociale: ad oggi, sono ancora lì fermo sulla corsia di emergenza, a fissare il motore in panne, senza la forza di ripararlo o chiamare aiuto. Fermo a pensare al motore che mi ha abbandonato.
E a questa cosa ci ho pensato un sacco. Mi sveglio e me lo chiedo: “Oh, ma adesso facciamo qualcosa?”. Vorrei. Penso sia giusto. Solo che non è semplice.
Cosa aspettarsi quando si soffre (e si continua a soffrire)? Di recente ho scoperto una lista attendibile tratta da How to Go on Living When Someone You Love Dies di Therese Rando. Copio e incollo alcuni punti, perché aiutano a capire:
Il tuo dolore potrebbe richiedere più tempo di quanto la maggior parte delle persone pensi.
Il tuo dolore potrebbe richiedere più energia di quanto tu abbia mai immaginato.
Il tuo dolore comporterà molti cambiamenti e sarà in continuo sviluppo.
Il tuo dolore si manifesterà in tutte le sfere della tua vita: psicologica, sociale e fisica.
Il tuo dolore dipenderà da come percepisci la perdita.
Ti addolorerai per molte cose, sia simboliche che tangibili.
Ti addolorerai per ciò che hai già perso e per ciò che hai perso per il futuro (speranze, sogni, aspettative non soddisfatte).
Il tuo dolore comporterà un'ampia varietà di sentimenti e reazioni, oltre alla tristezza (es. rabbia, senso di colpa, irritabilità).
La perdita di solito fa riaffiorare vecchi problemi e conflitti irrisolti.
Potresti avere qualche confusione di identità.
Potresti avere difficoltà a pensare (memoria, organizzazione) e a prendere decisioni.
A volte potresti sentirti come se stessi impazzendo.
Potresti essere ossessionato dalla perdita.
Potresti mettere in discussione la tua fede e/o filosofia sulla vita.
Potresti ritrovarti ad agire socialmente in modi diversi.
Potresti avere una serie di reazioni fisiche.
Date, eventi e stimoli specifici potrebbero provocare ondate di dolore improvvise ("spasmi di dolore").
La società potrebbe avere aspettative irrealistiche sul tuo lutto e reagire in modo inappropriato.
Esperienze future potrebbero risvegliare temporaneamente un dolore intenso.
Il tuo dolore apparirà diverso da quello degli altri o da altri dolori che hai sperimentato.
Appena letta questa lista, ho pensato a quanti "sintomi" siano veri per me, ogni giorno. E a quanto sia poco comprensibile dall'esterno. Se fosse il bugiardino di un farmaco, alla voce "effetti indesiderati", dubito che qualcuno lo prenderebbe alla leggera. Ma è quel che succede quando sopravvivi all'impatto con l'iceberg. Effetti veri, concreti, persistenti.
E spesso ci penso. "Che botta". E precipito nei dubbi. "Sto continuando a fare la vittima o sono una vittima?". A volte mi rispondo che sono una vittima. O, come direbbe qualcuno con meno tatto, che sto "piagnucolando come una femminuccia" e dovrei darmi una mossa. Altre volte, invece, specie quando mi sveglio più lucido (o più arrabbiato), penso diversamente. Penso che non faccio la vittima, ma che lo sono, in un certo senso.
A volte penso sia un problema MIO. E dovrei smetterla di scriverci una newsletter. Altre volte no. Inizio a pensare sia un problema NOSTRO. Non solo di come mettiamo il dolore da parte, ma di tutte le aspettative, le pressioni, i giudizi sul modo in cui le persone dovrebbero conviverci.
L’altro giorno ho letto una frase: “Il dolore è il prezzo da pagare per prendersi cura di qualcuno, quindi il fatto che tu stia lottando con esso è un omaggio a quanto fosse speciale per te questa persona che è morta.” È romantico. E sembra riguardare solo te e chi hai amato. Ma forse non è solo così. Il dolore riguarda il prezzo, ma anche il valore che diamo alla cura, all'amore. Crediamo sia utile, dignitoso, amare qualcuno? Se sì, allora dovremmo anche rispettare il dolore quando chi abbiamo amato non c'è più. E se è così, allora non è (solo) un problema mio. È un problema nostro.
Mi hai fatto commuovere..e hai detto delle cose meravigliose, anch'io sono una figlia che ha perso la madre dopo un anno in cui ero nata..ogni volta che ti leggo, mi ci rispecchio sempre!
"Pensi che ci siano cose che ti spaccherebbero il cuore. Lo farebbero in mille pezzi. Sentiresti un dolore fortissimo e poi basta, finirebbe tutto. Moriresti. Moriresti per un dolore troppo forte da sopportare. E poi invece succede davvero, ma non succede nulla. Il tuo cuore rimane lì, intatto. Fisicamente integro. Continua a fare il suo lavoro. Continua a battere, e mantenerti in vita. E poi lo scopri: è questo il vero problema." Grazie.