Non è ok (non) essere ok (Un anno dopo)
Sin qui ho tenuto il conto. Una settimana. Un mese. Due mesi. Tre mesi. 6 mesi. Quasi un anno. E adesso, giusto oggi, un anno.
All’università avevo un’amica con un hobby particolare. Uno sport, addirittura, come avrei scoperto in seguito, con tanto di federazione affiliata al Coni. Faceva la cronometrista. Non ricordo il suo nome. Ricordo che era riccia. Carina. E poco altro. Mi è tornata spesso in mente. Me la sono immaginata concentratissima sull’orologio a segnare i secondi. Nervosa prima della partenza e sollevata all’arrivo. Un clic al cronometro, stop, fiuu. Andata.
Non c’entra molto. Ma mi sono sentito cronometrista anche io da un anno a questa parte. Senza cronometro. Senza federazione. Cronometrista non riconosciuto, al quale nessuno ha spiegato quando stoppare il tempo.
Tra le cose che mi sono saltate in testa subito dopo quella notte c’era anche la scena di un film nel quale si parlava del tempo necessario per riprendersi da un lutto. Un mese ogni anno passato insieme, diceva un tizio. Ci ho pensato già quella notte tornando a casa. Pensando ai bambini che dormivano e chiedendomi se ci fosse un modo giusto per svegliarli e dire “mamma non c’è più”. Tra una sigaretta e un’altra, tra una curva e un’altra, pensavo anche questa cosa qui. Numeri. Mesi. Tempo. 20 anni insieme, 20 mesi per riprendersi.
Sono passati 12 mesi. Otto mesi ancora… Non ci credo neanche un po’. Ma c’è dell’altro.
Mentre tengo il tempo, passa tempo. E pesa. Non è solo mancanza. E non è più, solo, rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere. Sono io diviso a metà tra tenere il tempo e stare al passo con il tempo. Il mio, ma anche e soprattutto quello degli altri. Del mondo. Che non si ferma. Ecco, penso sia questo che pesa di più. Insieme a tante altre piccole e grandi cose, che oggi, dopo tanto tempo, provo a raccontare qui.
“Come stai?” Le persone ci tengono a chiedermelo. E io già da tempo mi sono stancato di rispondere. Non perché non voglia parlare, ma solo perché ogni risposta sarebbe sbagliata, parziale, o troppo poco articolata per avvicinarsi alla realtà. Oppure perché capisco benissimo che spesso non è la realtà che le persone vogliono sentire quando chiedono “come stai?”. E capisco anche che non è questione di cattiveria. È solo che ci sono distanze difficili da colmare, prospettive diverse.
La mia risposta più frequente, quando sono in vena, è un resoconto delle sfide pratiche e una rassicurazione sull’essere impegnato a risolverle. Mostrarsi “sul pezzo”, “con la schiena dritta”, “in piedi”, “combattivo”, “che non molla” – questo solitamente permette al mio interlocutore di tirare un sospiro di sollievo. Perché ci tiene a me, o semplicemente perché la domanda è stata fatta, la risposta (accettabile) ricevuta, e si può passare oltre. Ogni tanto mi è balenata l’idea di rispondere in modo brutalmente onesto, dire qualcosa di terribile, e vedere l’effetto che fa. Ma non l’ho fatto.
La migliore risposta superficiale resta “dipende”. Dipende da cosa vuoi sapere, da cosa vuoi sentire, da cosa reputi importante. Immagina uno che si rompe una gamba, frattura brutta, scomposta. Poi guarisce, torna a camminare. Come sta? Bene? Male? Dipende. Se non ha più dolore ed è tornato autonomo, forse sta “bene”. Ma se era un atleta, magari tornare solo a camminare non è affatto stare "bene". Dipende dalla prospettiva. E dipende da quanto ti interessa davvero approfondire. E così, quasi sempre, rispondo “bene”. Il mio interlocutore: “Ah bene”. Fiuu. Fiuu. Bene così.
Qui subentra un altro “dipende”: il “chi”. Gli altri. Le relazioni. Quelle che hai, o che avevi. Perché le cose cambiano. “Il lutto riorganizza la tua rubrica” è una frase tanto semplice quanto vera. E così è stato, più o meno, in questo anno. Alcuni sono scomparsi, ma da loro non mi aspettavo molto di diverso. Altri si sono dileguati piano piano, con classe, come chi entra in un ristorante, capisce di aver sbagliato posto e simula una telefonata per sgattaiolare via. Altri rimangono come soldati al fronte, per dovere più che per convinzione: sono quelli che chiamano ogni tanto, puntuali, per sapere “come stai?” e non chiudono finché non sentono il “bene” – “ah bene”. Fiuu. Fiuu.
I primi mesi ci sono stato male. Ora mi dispiace più che altro che qualcuno si senta in dovere di fare o chiedere qualcosa. Non c'è nessun dovere, nessuna pretesa da parte mia. E forse non è vero che "il lutto riorganizza la rubrica". Forse è più come dice Buffett: quando si abbassa la marea, si scopre chi nuotava senza costume. Si tratta di questo. Chi c’era, c’è.
Una vita fa avevo un amico molto sfortunato. Fregato da un socio, ridotto sul lastrico, problemi con la legge, con la salute. Dormiva su un divano in una bottega pignorata. Usciva la mattina per cercare di racimolare due soldi da gente a cui in passato aveva prestato denaro. E quelli, regolarmente, gli dicevano di no, e poi magari gli raccontavano dei loro "gravi" problemi: il radiatore dell'auto rotto prima delle vacanze, la moglie che pretendeva la settimana bianca... Lui ascoltava calmo, fino alla fine. Poi sbotava sempre uguale: “Ma chi mi cunti!?”
Ecco, per onestà devo dire che più passa il tempo, più mi sento quell’amico lì. A volte siamo noi a riorganizzare la rubrica. Si cambia. Cambiano le priorità, i punti in comune, la soglia di sopportazione per le futilità. Ho perso progressivamente la capacità di fingermi interessato a tanti progetti, problemi, vite altrui. Non che sia diventato un misantropo (o forse sì, un po'). Non odio le persone, mi fa piacere sapere che chi conta per me sta bene o supera un momento difficile. Ma non mi interessa più quello che sta nel mezzo: il problema con l'auto nuova, le mire espansionistiche sul mercato X, la lite col collega stronzo, i Ferragnez, le lezioni di vita da Sinner... Non mi interessa nulla che non riguardi le sfide vere della vita. Questione di prospettiva, certo. Cose che prima sembravano importanti, oggi mi fanno solo pensare: “Ma chi mi cunti!?”. Tutto qui.
Una delle prime letture da “dolente” fu “It's Ok That You're Not Ok” di Megan Devine (in Italia “Va bene essere tristi”). Sembrava perfetto: non avere fretta, permettiti di soffrire. Peccato non sia così semplice. Sentivo alla radio discorsi commossi su Sangiovanni, il cantante che si è fermato per prendersi cura di sé. Tiziano Ferro che gli scrive lettere pubbliche di supporto. Madame che dice "ti aspettiamo". Ricordavo Sacchi e l'ansia, Osaka e le conferenze stampa rifiutate, Simone Biles e le Olimpiadi. Esempi celebri, distanti, ma che sembrano indicare una nuova accettazione della vulnerabilità, specie ora che l'AI ci fa riscoprire la nostra umanità.
Peccato sia, per lo più, una bella narrazione che non trova riscontro nella vita reale, quotidiana. Lì, fuori dai riflettori e dai buoni propositi, non c’è tempo da perdere o da prendersi. Non c’è dolore che puoi permetterti di mostrare troppo a lungo. Devi essere forte, sul pezzo. O sei fuori. "È ok non essere ok"… ma solo se te lo puoi permettere. Solo se hai il privilegio di poterti fermare senza che tutto crolli.
L'ho scoperto piano piano. La prima azione da persona che "doveva essere ok", suggerita con delicatezza neanche una settimana dopo la sua morte: tagliarmi i capelli. E fare shopping per essere "presentabile" a scuola – prima ci pensava Lei. Non potevo apparire trasandato, scosso, inaffidabile. La seconda, un po' autoimposta, un po' suggerita dalla prima rata del mutuo: tornare a lavorare. Lavorare. Qui lo scollamento è netto: "prenditi il tuo tempo" da una parte, la consapevolezza che quel tempo non paga le bollette dall'altra.
In quest'ultimo anno, "prendendomi il mio tempo" (per modo di dire), sono rimasto fuori da tante cose: progetti, incarichi, eventi, collaborazioni. Non perché la gente sia cattiva o insensibile, non necessariamente. Ma perché il sistema corre, e chi si ferma è perduto. Tutti corrono il rischio di rimanere indietro. Non è un paese per vecchi, per donne con figli, per "deboli", per chiunque non possa garantire produttività costante.
Succede ancora oggi. Ogni mattina ho l'impressione di perdere terreno. E questo ha più a che fare con il sistema che con l'egoismo individuale. Siamo tutti vittime, ma solo alcuni ne pagano il prezzo più alto in certi momenti. Ho sempre saputo del costo che le donne pagano nel lavoro; solo ora sto capendo quanto sia salato. Le mie giornate sono scandite da faccende domestiche e una sfilza di “non posso”, “non lo so”, “spero”. “Alle 14? Non posso, prendo i bambini.” “Alle 13? Non riesco, pranzo.” “Alle 17? Spero…”. Una chiamata da scuola, una febbre, una festa, mandano all'aria l'agenda. A volte vorrei mandare tutto a fanculo, ma non posso. Respiro, scendo sott'acqua, e mi ripresento in società. E lì mi chiedono: “Come stai?”. E io dico: “Bene”. Fiuu. Fiuu. Si ricomincia.
La cosa che fa più male è questa: non è (solo) colpa "loro". Sarei quasi sollevato se fossero solo stronzi che non capiscono. Ma è più semplice e drammatico: siamo in una società dove nessuno può permettersi di rallentare per aiutare chi resta indietro, per paura di restare indietro a sua volta. Fuori dai libri e dai discorsi edificanti, resta questo. E chest'è, direbbero a Napoli.
Ogni tanto, nelle chiacchierate con gli amici veri, quelli rimasti, spunta la domanda: “Che pensi di fare?”. È il livello successivo al “come stai?”. Quella che segue il copione implicito del "non dipende da cosa ti capita ma da come reagisci...". Spesso non so cosa rispondere. A volte ho idee, magari buone. Ma non ho la forza, o le condizioni pratiche, per metterle in atto. Ho imparato a conoscere i limiti di questa nuova vita. “Eh ma devi fare qualcosa”, “Eh ma per i tuoi figli”, “Eh ma devi andare avanti”. Quanti "devi". Pesanti come macigni. Sensati, ma spesso ipocriti. Come chi crede davvero solo nella meritocrazia.
E invece no. A volte è caso. Fortuna. Sfortuna. La verità, come scrisse Frisch, è che “proviamo le storie come si provano i vestiti”, cercando a posteriori un senso che ci stia bene. Il pregiudizio retrospettivo: tutto sembra più prevedibile e logico dopo che è successo. Ma la storia è piena di eventi casuali decisivi. Bill Gates, ricorda Robert Frank, non sarebbe Bill Gates senza una serie incredibile di coincidenze fortunate (essere nato nell'anno giusto, la scuola giusta col computer giusto, l'accordo IBM andato in un certo modo...). Allo stesso modo, giudichiamo chi non ce la fa ignorando il ruolo del caso. È poco gentile, per usare un eufemismo, pensare che chi soffre se lo meriti. È figlia di un'eccessiva fiducia nella nostra capacità di controllare il destino. Non sempre è così. Spesso "è tutto un caso".
Nell'ultimo anno mi sono sentito spesso colpevole. A posteriori, sembra che abbia sbagliato tutto: non seguire un percorso tradizionale, tre figli, cinque cani, la casa in campagna... Tutte scelte che ora sembrano stupide e che pago.
Quanto costa un lutto? Un anno dopo mi rendo conto di aver fatto male i conti. Di non aver incluso diverse variabili. Tra tutte, la più pesante: il fatto che avrei dovuto continuare a giocare allo stesso gioco, ma con energie dimezzate, tempo frammentato, lucidità a intermittenza e responsabilità triplicate. Questo aspetto sfugge spesso a chi da fuori dispensa saggi consigli sul 'devi farcela'. Non è elegante parlare di costi quando si parla di dolore, ma la realtà è che le due cose si intrecciano. Il mondo non si ferma, e ti chiede di continuare a correre, essere produttivo, 'essere uomo', anche se non sei più quello di prima e il gioco è completamente diverso. Non ho il tempo di prima. Non ho la prevedibilità di prima. Non ho l’energia di prima. Non ho l’entusiasmo di prima. Ho solo più sfide, più problemi.
Mentre tengo il tempo del lutto, il tempo del mondo passa. E pesa. Non è solo mancanza. Non è più solo rimpianto. Sono io, diviso a metà tra tenere il conto dei giorni passati e cercare disperatamente di stare al passo con i giorni che corrono via. E a un anno di distanza, se me lo chiedi davvero, è maledettamente pesante.
Oppure no. Diciamo “bene”. “Ah bene”. Fiuu. Fiuu. ….
Ciao Davide, ti capisco tanto, anche se non completamente. Federico è morto quasi tre anni fa. Io non ho figli, avevo un gatto ma l'ha adottato mia nonna 97enne (un amore corrisposto, chi sono io per mettermi in mezzo). Odio chi mi chiede “Come stai?”, la mia rubrica è cambiata completamente, del lavoro me ne fregava già poco e ora proprio non me ne frega nulla, e l'anno scorso ho fatturato meno di 10.000 euro. Sto pensando di andarmene da dove sto, anche perché non me lo posso permettere.
Questa newsletter me l'ha mandata un'amica di quelle nuove, perché per ogni persona che scompare ne compaiono almeno due di splendide. Per il lavoro, ho capito che dovevo cambiare qualcosa e lo sto facendo (ne parlo un po' qui, senza menzionare il lutto però, che sono anche stufa di parlarne, ogni tanto: https://www.elenapanciera.it/cosa-fai-nella-vita/ ma se hai voglia di scrivermi non esitare a farlo). Intanto ti mando un abbraccio, che vorrei mandarti un milione di soldi, ma il conto si assottiglia.
Fammi sapere come posso darti una mano ed io se posso lo farò molto volentieri..se non ci aiutiamo fra noi.....a chi altro possiamo rivolgerci! Vi voglio bene famiglia Cardile ❤❤❤❤ se posso ti scrivo volentieri anche in privato o puoi scrivermi te ! Io su Instagram W.A ci sono un abbraccio grandissimo ai bimbi 😘😘😘😘 Barbara