Non è ok (non) essere ok (Un anno dopo)
Sin qui ho tenuto il conto. Una settimana. Un mese. Due mesi. Tre mesi. 6 mesi. Quasi un anno. E adesso, giusto oggi, un anno.
Un papà, tre figli, mamma non c'è più. La vita continua, dicono. Il mondo non si ferma. “Ok. Ci proviamo”. Questa newsletter racconta storie che molti preferiscono tacere. Cose che sembrano indescrivibili e per le quali si dice “non ci sono parole”. Ma ci sono. E parlano di respiri mozzati, di quando ti manca il respiro. Di vita e morte, lutto e amore. Di esseri umani. Non eroi, non invincibili. Che provano ad andare avanti. Insieme.
All’università avevo un’amica con un hobby particolare. Uno sport, addirittura, come avrei scoperto in seguito, con tanto di federazione affiliata al Coni.
Faceva la cronometrista.
Non ricordo il suo nome. Ricordo che era riccia. Carina. E poco altro.
Mi è tornata spesso in mente.
Me la sono immaginata concentratissima sull’orologio a segnare i secondi. Nervosa prima della partenza e sollevata all’arrivo. Un clic al cronometro, stop, fiuu. Andata.
Non c’entra molto.
Ma mi sono sentito cronometrista anche io da un anno a questa parte.
Senza cronometro. Senza federazione. Cronometrista non riconosciuto, al quale nessuno ha spiegato quando stoppare il tempo.
Tra le cose che mi sono saltate in testa subito dopo quella notte c’era anche la scena di un film nel quale si parlava del tempo necessario per riprendersi da un lutto.
Un mese ogni anno passato insieme diceva un tizio.
Ci ho pensato già quella notte tornando a casa.
Pensando ai bambini che dormivano e chiedendomi se ci fosse un modo giusto per svegliarli e dire “mamma non c’è più”.
Tra una sigaretta e un’altra, tra una curva e un’altra, pensavo anche questa cosa qui. Numeri. Mesi. Tempo.
20 anni insieme, 20 mesi per riprendersi.
Sono passati 12 mesi.
8 mesi ancora…
Non ci credo neanche un po’.
Ma c’è dell’altro.
Mentre tengo il tempo, passa tempo.
E pesa.
Non è solo mancanza.
E non è più, solo, rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere.
Sono io diviso a metà tra tenere il tempo e stare al passo con il tempo.
Il mio, ma anche e soprattutto quello degli altri. Del mondo.
Che non si ferma.
Ecco, penso sia questo che pesa di più.
Insieme a tante altre piccole e grandi cose, che oggi, dopo tanto tempo, provo a raccontare qui.
Conversazioni e Distanze
“Come stai?”
Le persone ci tengono a chiedermelo.
E io già da tempo mi sono stancato di rispondere.
Non perché non voglia parlare con le persone ma solo perché ogni risposta sarebbe sbagliata, parziale, o troppo poco articolata per avvicinarsi alla realtà.
Oppure perché capisco benissimo che non è ciò che le persone vogliono sentire quando chiedono “come stai?”
E capisco benissimo che non è neanche questione di cattiveria.
È solo che ci sono distanze difficili da colmare, prospettive che non permettono di avere la stessa visuale e capire.
La mia risposta più frequente, quando sono in vena, è un resoconto delle sfide alle quali sono chiamato e una rassicurazione sull’essere impegnato a risolverle. “Essere sul pezzo”, “dritti sulla schiena”, “in piedi”, “combattere”, “non arrendersi”, “essere uomo”, è quello che solitamente permette al mio interlocutore di tirare un sospiro di sollievo.
Perché ci tiene a me e si sente sollevato dal sapere che ci sto provando.
O semplicemente perché lui la sua domanda l’ha fatta e la risposta non necessità di ulteriori approfondimenti, o azioni.
Ogni tanto mi è balenata invece l’idea di rispondere in maniera folle e dire qualcosa di terribile da sentire… e vedere che effetto possa fare.
Ma non l’ho fatto.
A parte questo, sul capitolo “come stai” ci sarebbe ancora molto da dire.
Tipo che la migliore risposta per quanto superficiale è “dipende”.
Dipende da cosa vuoi sapere, da cosa vuoi sentire, da cosa reputi importante.
Immaginiamo che qualcuno si rompa una gamba. Una frattura scomposta di quelle davvero brutte. Ma poi, tutto sommato la frattura si ricompone e torni a camminare.
Come starà adesso questa persona?
Bene? Male?
Dipende.
Il fatto di non avere più dolore, di non dover rimanere a letto, di tornare a camminare normalmente potrebbe essere un motivo di sollievo e gioia. Un incidente superato, un brutto ricordo.
Se però quella persona fosse uno sportivo, forse tornare a camminare non basterebbe. Forse rispondere “sto bene”, potrebbe essere una risposta molto parziale.
Dipende.
E dipende, questo il punto, anche da quanto vuoi approfondire.
Da quanto ti interessa davvero.
E così quasi sempre rispondo “bene”.
Il mio interlocutore “ah bene”.
Fiuu.
Fiuu.
Bene così.
Il lutto riorganizza la tua rubrica
Qui subentra un altro “dipende”. Il “chi”.
Gli altri. Le relazioni.
La relazione che hai con gli altri.
O che avevi.
Perchè le cose cambiano. Sempre.
In alcuni casi di più.
“Il lutto riorganizza la tua rubrica” è una frase tanto semplice quanto vera.
E così più o meno è stato in questo anno così speciale.
Alcuni sono scomparsi. Ma sono persone dalle quali non mi sarei aspettato molto di diverso.
Altre si sono dileguate piano piano. Con disinvoltura, classe ed esperienza. Come quando entri in un ristorante e ti rendi conto che non ti piace, e non avresti dovuto entrarci proprio. E inizi a guardarti intorno, simulare una telefonata o aver smarrito le chiavi, e pian piano fuggire via.
Altri che rimangono come soldati al fronte, per dovere ma non per fede o convinzione. E sono quelli che di tanto in tanto, ma con grande puntualità, ti chiamano per sapere come stai. E non chiudono la conversazione sino a quando: “bene”, “ah bene”.
Fiuu. Fiuu. Bene così.
I primi mesi ci sono stato male.
Con il tempo mi dispiace più che altro che qualcuno si sia sentito o senta in dovere di pensare o fare qualcosa per me.
Penso non ci sia alcun dovere, né tantomeno una pretesa da parte mia (o di chi soffre).
E credo che in fondo non sia vero che “il lutto riorganizza la tua rubrica”.
Semplicemente, un po’ come dice Buffet in altri ambiti: quando si abbassa la marea si scopre chi nuotava in mutande.
Si tratta di questo, non di molto altro.
Chi c’era c’è.
Non mi interessa
Una vita fa avevo un amico abbastanza sfortunato.
Estromesso dalla sua società da un socio che considerava un amico.
Ridotto sul lastrico. Con problemi di soldi e con la legge.
Con problemi di salute.
Dormiva su un divano di una bottega impolverata, pignorata, che aveva ricevuto in eredità dalla madre.
La mattina usciva per cercare di racimolare qualche soldo per mangiare da persone alle quali in passato aveva prestato soldi.
E puntualmente le persone gli dicevano di no. E nel frattempo gli raccontavano questo o quel problema che le assillava.
Che le vacanze le avevano dovute spostare perché il radiatore della macchina aveva iniziato a dare problemi. O che erano nei guai perchè le vacanze dovevano farle per forza perchè la moglie o i figli non gli davano pace.
E lui ascoltava sempre con calma irreale. Sino alla fine.
Fino a sbottare e concludere sempre così: “ma chi mi cunti!?”
…
Per onestà c’è da dire anche questo: molte volte siamo noi a riorganizzare la nostra rubrica. Le nostre relazioni. Il grado e l’intensità di certe relazioni.
Anche qui il motivo è semplice: si cambia. Cambiano priorità e punti in comune.
Più passa il tempo e più mi sento quell’amico lì…
Un crescendo esponenziale.
Dal tiepido interesse sino al “non me ne frega niente”.
Ho perso progressivamente ma inesorabilmente la capacità di fingermi interessato ai progetti, problemi, vite della gente.
Cioè, per capirci, non che ad un tratto sia diventato un misantropo (o forse in parte lo sono sempre stato).
Non odio le persone né rimango indifferente a gioie e dolori delle persone.
Mi rende felice sapere che qualcuno al quale tengo sta vivendo un bel periodo, o riesca ad uscirne da uno brutto.
Non mi interessa però quello che sta nel mezzo.
E non intendo nel percorso, parlo di quelle sfumature di significato (che pure so essere importanti) che caratterizzano le nostre vite.
Il problema con l’auto che hai appena preso dal concessionario, le tue mire espansionistiche su questo o quel mercato, la lite con il collega che non capisce e ti rende la vita un inferno, i problemi dei Ferragnez o le vittorie di Sinner che dovrebbero insegnarci questo o quello.
In generale non mi interessa nulla che non riguardi le sfide vere della vita.
Qui ancora una volta è questione di prospettiva e punti del percorso.
Ci sono stati momenti nei quali anche per me alcune cose erano importanti, fondamentali, o meritevoli di discussione.
Oggi semplicemente no.
Tutto qui.
“Ma chi mi cunti!?”
Non è ok non essere ok
Una delle prime letture da “dolente” fu “It's Ok That You're Not Ok”, di Megan Devine, uscito in Italia come “Va bene essere tristi”.
Mi sembrò subito convincente.
Il libro giusto al momento giusto. Quello che non invita a riprendersi velocemente ma che anzi suggerisce di andare piano, essere tristi, permettersi di soffrire.
Peccato non sia affatto così.
Tempo fa alla radio sentivo discorsi interessantissimi e convinti sulla vicenda Sangiovanni, il giovane cantante che ha deciso di fermarsi e ammesso tutte le sue debolezze.
Tiziano Ferro gli ha risposto con una lettera da libro Cuore, dove racconta quanto si rivede in lui e quanto avrebbe voluto, ai tempi, un amico che gli dicesse: “Non lasciare siano gli altri a decidere ciò che ti rende felice e ciò che no. Prenditi il tempo del quale hai bisogno e vedrai che troverai la chiarezza che adesso non hai”.
Madame gli ha scritto:” Torna a splendere fratellino, ti aspettiamo per tutto il tempo che ti serve.”
Situazioni simili si sono già verificate in altri ambiti altrettanto celebri.
L’ansia di Sacchi, il suo pianto da allora allenatore del Parma che lotta con l’ansia e si tira fuori.
Più recentemente, la tennista Naomi Osaka, dopo aver rifiutato di partecipare ad una conferenza stampa in occasione degli Open di Francia.
Simone Biles, nella ginnastica, ritiratasi durante la gara delle olimpiadi di Tokyo 2021.
Sono solo alcuni esempi.
Eclatanti. Celebri. Distanti dalla realtà delle persone comuni.
Ma che comunque raccontano una storia semplice, vera e comune: da un paio di anni a questa parte abbiamo tutti scoperto il valore della vulnerabilità. Specie oggi che a colpi di robot e “magie Ai” l’umanità pare essere sotto attacco.
Peccato però che è solo una delle tante storie che ci raccontiamo e non trovano risposta nella vita di tutti i giorni.
Nella vita di tutti i giorni, in quella reale, in quella fuori dai buoni propositi e dal “sarebbe bello/sarebbe giusto”
Nella realtà, nel mondo in cui viviamo, non c’è tempo che puoi perdere. Non c’è tempo che puoi prenderti. Non c’è dolore che puoi permetterti di mostrare o persino ostentare.
Devi essere forte. Ugualmente sul pezzo.
O sei fuori.
A dispetto di tanti libri, discorsi, messaggi, sull’importanza della salute mentale, delle emozioni, della vulnerabilità, del dolore e della libertà di vivere il dolore, rimane solo questo.
Ed è quello che ho scoperto piano piano in questi mesi, e che vivo ancora oggi.
La prima azione da persona che doveva essere “ok”, mi fu suggerita con delicatezza neanche una settimana dopo: tagliarmi i capelli.
Insieme a una giornata di shopping per rendermi presentabile a scuola dai ragazzi - prima ci pensava Lei.
Non potevo permettermi di apparire trasandato o eccessivamente scosso, cioè poco affidabile.
La seconda azione, un po’ auto imposta, un po’ “suggerita” dalla prima rata del mutuo imminente, fu tornare a lavorare.
Lavorare.
Qui è dove il grande scollamento tra teoria e pratica si fa più chiaro.
Da una parte “prenditi il tuo tempo”, dall’altra sapere che “non puoi prenderti il tuo tempo”.
Da una parte “prenditi il tuo tempo”, dall’altra la consapevolezza che non sarà una valuta spendibile al supermercato.
“È ok non essere ok” ma solo se te lo puoi permettere.
È ok ammettere le tue fragilità se hai il privilegio di poterlo fare.
“È ok non essere ok” ma solo in teoria.
In questo ultimo anno, prendendomi il mio tempo, come sembra essere giusto, sono rimasto fuori da tante cose.
Da progetti. Incarichi. Eventi. Collaborazioni.
E non perchè le persone siano cattive, insensibili o se ne freghino di chi rimane indietro. Non necessariamente.
Ma perché tutti corrono il rischio di rimanere indietro.
Non è un paese per vecchi, per donne, per “deboli”
Succede ancora oggi.
Ogni mattina ho l’impressione di perdere terreno ed essere tagliato fuori.
E anche questo ha a che fare più con il sistema nel quale tutti viviamo che dalla cattiveria o dall’egoismo delle persone.
Il punto è che siamo tutti vittime. Ma che solo in alcuni casi, e momenti, ne paghiamo il prezzo.
Ad esempio, pur riconoscendo da sempre il costo che le donne pagano nel lavoro, ho scoperto solo adesso quanto sia salato.
Le mie giornate da un anno a questa parte sono scandite da faccende domestiche e una sfilza di “non posso”, “non lo so” e “spero”.
“Alle 14? Non posso devo prendere i bambini a scuola.”
“Alle 13? Non riesco, devo fare mangiare la piccola?”
“Alle 17 dici? Spero di riuscirci…”
Una chiamata da scuola, una febbre improvvisa, una festa di compleanno o un progetto a scuola, sono tutte cose che possono mandare all’aria ogni previsione e ogni agenda.
A volte mi sveglio pieno di buoni propositi, poi uno dei ragazzi torna da scuola con un problema e tutto salta in aria.
Sono momenti nei quali vorrei mandare all’aria tutto. Ma non lo posso fare.
E così respiro, prendo fiato, come chi sa di dover scendere in profondità, sott’acqua. E mi presento comunque in società.
E lì le persone mi chiedono “come stai?”
E dico bene.
Fiu. Fiu.
Si ricomincia.
Dopo un anno di questa vita la cosa che mi fa più male è proprio questa: che non è mica colpa loro. Sarei davvero sollevato se lo fosse.
Sarei forse anche persino felice di sapere di trovarmi di fronte degli stronzi, che non capiscono.
Il punto però è più semplice e più drammatico. Come detto prima: siamo una società nella quale nessuno può permettersi di aiutare chi rimane indietro per non rimanere a sua volta indietro.
Fuori dai libri, dalla teoria, dai discorsi che fanno tanta presa sui social e sui giornali, resta questo.
A Napoli saprebbero dirlo meglio “E chest'è!”.
Essere dal lato sbagliato della storia
Nelle chiacchierate con amici e “soldati al fronte”, ogni tanto spunta fuori una domanda: “che pensi di fare?”
È la domanda successiva al “come stai?”.
Quella che approfondisce i discorsi.
O quella che sorvola il “come stai?” e va dritto al dunque.
Quella domanda insomma che segue un altro copione al quale più o meno tutti fingiamo di credere, specie in teoria, sui social e quando non tocca a noi: non dipende da cosa ti capita ma da come reagisci…
E io spesso non so cosa rispondere.
A volte ho idee. A volte sono persino buone.
Solo che non ho la forza di metterle in atto.
Solo che piano piano ho imparato a conoscere e preventivare tutti i limiti di questa (nuova) vita.
“Eh ma devi fare qualcosa”.
“Eh ma devi farlo per i tuoi figli”
“Eh ma devi andare avanti”.
Quanti “eh”. Quanti “devi”.
Sono pesanti come macigni.
Sensati. Ma ipocriti.
Come chi crede davvero che questo mondo sia governato dalla meritocrazia e ciascuno raccoglie per quanto semina.
E invece no.
A volte è un caso.
La verità, come scrisse Frisch è che “proviamo le storie come si provano i vestiti”. Se ci stanno bene.
E quasi sempre - è nella natura umana - lo facciamo a posteriori.
Trovando senso anche quando un senso non c’è.
Gli studiosi lo chiamano “pregiudizio retrospettivo”: la tendenza degli esseri umani a ritenere gli eventi più prevedibili , più sensati, di quanto non siano in realtà.
La storia è piena di eventi casuali ai quali non diamo peso eppure hanno fatto la differenza. Ce ne sono tantissimi, alcuni tali da far dubitare anche i più scettici della linearità delle nostre storie, della relazione tra causa e effetto.
Prendendone una, celebre, Bill Gates non sarebbe stato Bill Gates se non fosse nato al momento giusto e nel posto giusto.
Come scrive ad esempio Robert H. Frank in “Fortuna e Successo”: “se Bill Gates fosse nato nel 1945 anziché nel 1955, se il suo liceo non avesse avuto un computer club dotato di uno dei primi terminali in grado di fornire un feedback istantaneo, se l’IBM si fosse messa d’accordo con la Digital Research di Gary Kildall, o se Tim Patterson avesse avuto a che fare con un negoziatore più esperto, quasi certamente Gates non avrebbe avuto un successo così straordinario.”
E allo stesso modo denigriamo la storia di chi non ce l’ha fatta o si trova indietro ignorando il ruolo del caso nelle nostre vite.
È un concetto che sostengo da tempo: è poco gentile, per usare un eufemismo, pensare che chi soffre in un certo senso se lo meriti.
Fa ancora una volta parte di questa società: un’eccessiva fiducia nella nostra capacità di plasmare il nostro destino.
Non sempre è così. Dipende.
A volte è frutto del caso.
Spesso: “è tutto un caso”.
Nell’ultimo anno mi sono sentito troppo spesso colpevole.
A posteriori, per come sono andate le cose, pare abbia sbagliato tutto.
Non seguire un percorso professionale tradizionale.
Aver avuto tre figli.
Circondarmi di cinque cani.
Comprare una casa in campagna fuori città.
…
Tutte scelte stupide a quanto pare e che adesso pago.
Quanto costa un lutto?
A un anno di distanza la cosa che mi fa più male è questa: dover continuare a giocare. Allo stesso gioco. Alle stesse regole. Anche se tutto è cambiato.
Un anno fa, avviando questa newsletter, misi una postilla in evidenza: “no, non ci servono soldi”.
Un anno dopo, la penso in modo diverso…
E no, non mi riferisco al fatto che un aiuto oggi sarebbe accettato - sì, anche.
Ma al fatto che farcela è qualcosa di proibitivo.
Ricordo ancora le mie passeggiate solitarie in giardino. Divise a metà tra lacrime, recriminazioni e ansia per il futuro.
Eppure, anche in quei momenti, ero convinto di farcela.
Dopotutto, ce l’avevo sempre fatta.
Ora più che mai, pensavo, non avevo altra opzione.
Vero, bello, giusto. Ma parziale.
Un anno dopo mi rendo conto di aver fatto male i conti. Di non avere incluso diverse variabili. Tra tutte, ma sostanziale: il fatto che avrei giocato al gioco di sempre ma in maniera diversa.
Questo è un aspetto che spesso sfugge a chi da fuori guarda e dispensa saggi consigli “devi farcela…”
Non è elegante accostare le emozioni al denaro ma purtroppo anche qui bisogna distinguere tra teoria e realtà.
Nella realtà è un binomio inscindibile.
Non vi sono molti dati a supporto - chi si trova coinvolto spesso non è così raggiungibile né vuole parlarne.
Eppure, quei pochi dati che ci sono, parlano chiaro.
Per esempio, da una ricerca di qualche anno fa, le persone che perdono un figlio subiscono una riduzione di reddito pari circa al 30%. Solo alcuni riescono a recuperare una parte dopo sei anni.
Nel mio caso, dando qualche numero approssimato:
aumento spese +50%
riduzione reddito - 70%
Sinceramente? Mi verrebbe da dire che è l’ultimo dei miei problemi.
La notte quando mi sveglio e non riesco più a prendere sonno penso a quei momenti fantastici nei quali non sapevo come andare avanti economicamente ma avevo ancora Lei.
Ma non è tanto questo.
Non si tratta solo di numeri né tantomeno di soldi.
Si tratta di quella consapevolezza lì.
Quella che ti dice che il mondo non si fermerà.
Che devi continuare a correre, essere produttivo, essere uomo.
Giocare alle stesse condizioni di prima. Anche se non sei più quello che eri, e adesso il gioco è completamente diverso.
Non ho il tempo di prima. Non ho la prevedibilità di prima. Non ho l’energia di prima. Non ho l’entusiasmo di prima.
Ho solo più sfide, più problemi.
Mentre tengo il tempo, passa tempo.
E pesa.
Non è solo mancanza.
E non è più, solo, rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere.
Sono io diviso a metà tra tenere il tempo e stare al passo con il tempo.
E a un anno di distanza, se me lo chiedi, se vuoi davvero saperlo: è maledettamente pesante.
Oppure no.
Diciamo “bene”.
“Ah bene”.
“Fiuu”.
“Fiuu”.
….
Soliti aggiornamenti e cose extra
Vorrei continuare ma giuro la smetto
Ho iniziato questa newsletter appena 14 giorni dopo quella maledetta sera. Probabilmente troppo presto.
Sentivo di doverne parlare.
E credevo potesse servire non soltanto a me.
Nel tempo, in questi mesi, ho cambiato idea. O meglio, ogni volta che volevo scrivere qualcosa emergevano dubbi. I più comuni, come detto anche altre volte, erano legati al rischio di fare di questo spazio un diario personale pieno di lamentele e dolore personale. Comprensibile ma non mi mette molto a mio agio.
Per il futuro vorrei continuare a parlare, a scrivere, ma spostandomi su argomenti più generali.
Perché, sinceramente, contrariamente a quanto pensavo potesse accadere: “no, nessuna crescita da dichiarare”.
In un anno sono sempre io. Nessuna illuminazione.
Solo un po’ più stanco.
Forse, l’unico vero cambiamento e contributo sta nell’includere sempre la morte quando si parla di vita.
Che poi, pensandoci (ma magari domani cambio idea), questo mi pare un cambiamento sostanziale.
Dunque tra i buoni propositi: scriverò con più costanza.
E mi lamenterò molto di meno, almeno ad alta voce e su questo spazio 🙂
Grazie. E grazie in anticipo
Ci sono quasi duemila persone che leggono questa newsletter. È qualcosa di pazzesco, considerati anche i numeri di chi non solo ha cliccato iscriviti ma si prende davvero il tempo di leggermi.
Ogni volta è una pacca sulle spalle che fa bene all’anima.
Come spesso ho detto e amo ripetere: mi fa sentire meno idiota nel raccontare pubblicamente tutti i miei limiti.
Spinto da questo affetto, avevo avviato anche un piano per sostenermi via Substack con un abbonamento.
Ma non ha funzionato. E non credo possa funzionare.
Ogni abbonamento mi fa stare male.
Perché in qualche modo mi riporta sul quel terreno di gioco lavorativo del “ti do questo, tu mi dai questo”.
E come ho scritto non riesco più, o sempre, a garantirlo.
Però un aiuto mi serve.
E quest'anno mi ha insegnato che vivere davvero con il lutto richiede un tipo di forza e sostegno che va oltre le parole.
Così ho pensato di inserire la possibilità di darmi una mano a prescindere. Un semplice gesto di empatia e umanità, slegata da vincoli e obiettivi.
Da ogni forma di promessa e ricompensa.
Dritti al punto: da qui se volete darmi una mano.
Mentre lo scrivo mi vergogno un po’. Anzi tanto.
Mi chiedo perché qualcuno dovrebbe prendersi cura di chi rimane indietro.
Dall’altra: mi piace pensare che io lo farei.
E forse è questo che ci permette di definirci e rimanere ancora umani.
A presto, Davide
Ciao Davide, ti capisco tanto, anche se non completamente. Federico è morto quasi tre anni fa. Io non ho figli, avevo un gatto ma l'ha adottato mia nonna 97enne (un amore corrisposto, chi sono io per mettermi in mezzo). Odio chi mi chiede “Come stai?”, la mia rubrica è cambiata completamente, del lavoro me ne fregava già poco e ora proprio non me ne frega nulla, e l'anno scorso ho fatturato meno di 10.000 euro. Sto pensando di andarmene da dove sto, anche perché non me lo posso permettere.
Questa newsletter me l'ha mandata un'amica di quelle nuove, perché per ogni persona che scompare ne compaiono almeno due di splendide. Per il lavoro, ho capito che dovevo cambiare qualcosa e lo sto facendo (ne parlo un po' qui, senza menzionare il lutto però, che sono anche stufa di parlarne, ogni tanto: https://www.elenapanciera.it/cosa-fai-nella-vita/ ma se hai voglia di scrivermi non esitare a farlo). Intanto ti mando un abbraccio, che vorrei mandarti un milione di soldi, ma il conto si assottiglia.
Fammi sapere come posso darti una mano ed io se posso lo farò molto volentieri..se non ci aiutiamo fra noi.....a chi altro possiamo rivolgerci! Vi voglio bene famiglia Cardile ❤❤❤❤ se posso ti scrivo volentieri anche in privato o puoi scrivermi te ! Io su Instagram W.A ci sono un abbraccio grandissimo ai bimbi 😘😘😘😘 Barbara