Ma il cane muore?
Perché per alcune persone certe cose sono maledettamente importanti, perché va anche bene così, e che cosa abbiamo in comune.
Ci sono un paio di film che avrei voluto vedere, che non ho potuto vedere e che adesso, anche potendo, non vedrò mai.
Due su tutti: “Io e Marley” e "Hachikō".
Entrambi, con protagonisti un cane. Un cane che, prima o poi muore.
Troppo famosi, troppo spoilerati, per far finta di niente.
E lei lo sapeva.
Non appena passavo sulla locandina di Netflix o di Amazon Prime saltava in aria: “non ti azzardare…”
In altri film invece non se l’aspettava. E sinceramente nemmeno io. Mi divertiva da matti vederla scossa e seccata. Ma non così tanto. Non al punto da propinarle un film con un cane che muore…
Ho saputo da subito con chi avrei avuto a che fare.
La prima volta, una vita fa. La prima volta che le diedi un passaggio in auto direzione università. Strada deserta; stranamente era prestissimo. Eravamo in orario, anzi in anticipo: qualcosa di incredibile sia per me che per lei. Ancora più incredibile per me e per lei. Per intenderci, il primo figlio, cesareo programmato… siamo riusciti ad arrivare in ritardo. Ma questa è un’altra storia.
Dicevo che sapevo.
E di quella prima volta che le diedi un passaggio.
Strada deserta. Gattino spiaccicato sull’asfalto. Lo intravede, chiude gli occhi. Mi urla: “sta dormendo vero?”
Era il suo modo scemo per esorcizzare la vista della morte di un qualsiasi animale. Avrebbe continuato a farlo per anni. Un rituale che a un certo punto diventò più di un gioco. Non una presa in giro ma un promemoria per entrambi: sappiamo come sei/sono fatta.
Era una donna coraggiosa.
La persona che avresti voluto in ogni situazione difficile.
Ma non di fronte al dolore di un animale. Anche da uno schermo.
Si commuoveva. Finiva per starci male davvero.
E così ogni sera, in quei minuti, a volte ore, per scegliere un film, stava attentissima a capire se prima o poi un animale, soprattutto un cane, fosse morto, fosse stato maltrattato o sarebbe stato infelice.
In caso positivo: “non ti azzardare”.
In caso contrario, se cioè se ne accorgeva troppo tardi: “stronzo”.
Come se glielo avessi fatto apposta.
“Io e Marley” e "Hachikō", così non li abbiamo mai guardati.
Oggi invece potrei. In quest’ultimo anno mi sono passati davanti diverse volte. Ho anche pensato fosse giunto il momento di guardarli. Ma non l’ho mai fatto.
È come se ci fosse ancora lei a dirmi “non ti azzardare”. E mi ucciderebbe non sentire “stronzooo” nelle scene strazianti.
Il cane muore?
L’altro giorno guardavo Armageddon, lo show di Ricky Gervais, e ho scoperto un sito web che le sarebbe piaciuto tantissimo: “Does the Dog Die?”.
Come suggerisce il nome, è un sito dove lo spoiler non è affatto bandito ma apprezzato e incentivato. Salva le persone dal rovinarsi la serata guardando il film sbagliato.
Selezioni un film e puoi sapere subito se un cane muore. Ma puoi fare anche altre mille domande.
Da un certo punto di vista, ha qualcosa di geniale, qualcosa di esilarante, e qualcosa di drammatico.
Ricky ad esempio raccontava di alcune domande che si possono trovare riguardo Shinderlist.
Alcune delle più grandi paure e domande degli utenti erano incentrate su cani e altri animali: “oddio, non è che muore un cane?”
No, un cane no. Però a un certo punto viene cucinata una gallina :(
…
Certo, domande del genere su un film che racconta l’Olocausto, fanno ridere fino a un certo punto. O affatto.
Più che altro fanno pensare che abbia davvero ragione Ricky: “siamo costretti ancora a scrivere sulla candeggina “non bere”. Proviamo a togliere quell’etichetta e poi ne riparliamo…”
Però tutto ciò fa anche riflettere.
Al fatto che per alcuni “muore il cane?” sia una domanda dannatamente importante.
E, a volte, assolutamente una domanda lecita. Umana.
La gerarchia del dolore
Anche se ne sto parlando solo adesso, è un tema che vivo dal primo giorno.
Quando ho iniziato questa newsletter, pensando al nome, mi è subito venuto in mente “non ci sono parole”.
La frase che più di tutte avevo sentito in quei primi giorni.
Ma anche la frase che più di ogni altra testimonia la difficoltà, di noi umani, nell’avvicinarsi al dolore e ancora di più a chi sta soffrendo.
Dietro “non ci sono parole” non c’è solo sgomento. C’è il modo con il quale come società abbiamo ritualizzato il tenersi alla larga da chi soffre, anche solo per paura di sbagliare. A volte, spesso, sono le persone più vicine che non trovano parole. Ma soprattutto che non vogliono parlarne. O vederti.
E oggi, a distanza di un anno, capisco ancora di più quanto sia umana questa cosa.
E no, rispondendo ai commenti di un anno fa ai quali probabilmente non ho mai dato risposta, non credo ci siano davvero tante parole da spendere di fronte al lutto, al dolore.
Proprio l’altro giorno mi ha scritto un amico.
“Abbiamo detto addio alla nostra mamma… anche se ho una certa età non si è mai pronti”.
La mia risposta: “no, non si è mai pronti”. Ed emoticon del cuoricino. E basta.
Per dire che non è che avere vissuto una perdita così importante, essere in lutto, scriverci persino una newsletter, fa di me l’esperto mondiale sul tema, l’oratore ideale di fronte al lutto.
Non ho risposto con un audio dettagliato su cosa aspettarsi… su come ci si sente…
Per diversi motivi. Il più importante? Perché non ne ho alcuna idea.
Per quanto il lutto mi avvicini ovviamente a chi ha subito una perdita, ciascuno soffre a modo suo. Ciascuna perdita, ma in generale ciascun dolore, se vogliamo può anche infilarsi in una categoria (padre/madre, fratello/sorella, figlio/figlia, compagno/compagna) ma ha valori statistici non umani.
E se vogliamo, come pare faccia molta letteratura sul tema, possiamo provare anche ordinarla per grado: morte figli, partner, genitori. Ma anche questo lascia il tempo che trova.
Quale dolore è più forte? In realtà “dipende”.
Siamo tutti diversi. Ci capitano cose simili ma in modo diverso. A volte ci capitano cose simili in modo simile. Ma soffriamo tutti in modo diverso.
Tolstoj l’aveva detto meglio: “Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
La felicità è soggettiva, il dolore anche di più.
Come un divorzio
Una delle parole che più ho sentito da quando è successo, e per alcuni potrà apparire strano, è “divorzio”.
Sono tantissime le persone che mi hanno raccontato del loro divorzio burrascoso. Di come sono state male. Di come si sono sentite a pezzi. Di come abbiano smarrito la propria identità. Delle difficoltà con i figli.
All’inizio, sarò sincero, la cosa ha sorpreso anche me. E irritato abbastanza.
Oggi invece non succede più. Capisco. Ha senso.
Penso sia questione di empatia. Una parola che non può mancare quando si parla di dolore. Ma anche una parola molto più complessa e sfuggente di quanto pensiamo.
La definizione più citata, e forse anche quella che più abbiamo in mente, richiama “la capacità di "mettersi nei panni di un altro".
Bello, ma difficile. Spesso impossibile. A volte forse nemmeno indicato.
Ci sono situazioni che non puoi comprendere pienamente se non le hai vissute. E ci sono situazioni, come dicevo prima, che per quanto tu le abbia vissute non ti permettono di comprendere comunque chi hai davanti.
“Mettersi nei panni di un altro/a?”Mmm…
Questo dovrebbe chiudere ogni discorso. E invece lo apre.
C’è qualcosa a mio avviso di migliore che possiamo fare, e che spesso (slancio ottimistico) facciamo: avvicinarci.
Avvicinarsi a una persona che soffre, in difficoltà, non prevede necessariamente mettersi nei suoi panni. E non prevede nemmeno di essere passati tramite questa o quella esperienza.
(Qui mi viene in mente la mia sorellina, emblema di quel folto gruppo di uomini e donne che almeno una volta nella vita, e succede spesso, completamente a caso, si sentono dire “se non hai figli non puoi capire. Chiusa parentesi)
Si tratta più che altro di accettare che qualcuno possa soffrire. Di non temere il dolore, non relegarlo a tabù, non sperare “finisca presto”.
Accettare la vulnerabilità umana. Di chi sta soffrendo in un determinato momento e situazione. Ma anche la nostra.
E spesso la strada per riuscirci è attingere alla propria vulnerabilità. E alle proprie esperienze. Diverse, lontane, anche se a volte non ci azzeccano proprio. Eppure aiutano a ritrovarsi sulla stessa pagina.
Quella dell’umanità che non sempre ha la forza di risolvere tutto, di rialzarsi con un colpo di reni, di rispondere alle sfide della vita con resilienza da manuale.
Un divorzio. Un dolore lasciato indietro nel tempo. Un momento nel quale mancava la forza per alzarsi dal letto. L’ansia di non farcela. La paura del futuro. Il peso del passato. Tutto ciò che ci mette a disagio con l’idea di invulnerabilità è un ingrediente giusto per entrare in empatia con gli altri.
Non per mettersi nei suoi panni. Ma per riuscire a stare accanto senza doversi girare dall’altra parte.
Per alcuni il problema è “morirà il cane?”
Dopo un anno finalmente le persone sono tornate a parlarmi…
Intendo dire davvero. Non solo a fare domande, e domande scontate. Non solo ad ascoltare i miei problemi. Ma a raccontare anche i loro.
Ma poi, quasi sempre, alla fine, c’è una frase che salta fuori: “Scusa, lo dico a te…”
Qui forse l’altro giorno mi sono spiegato male. Ho detto che ho perso la capacità di fingermi interessato. E che molte storie mi interessano sempre meno. Mi annoiano. A volte, irritano. Ma non significa che non comprenda che ciò che per me sarebbe una buona giornata, per altri potrebbe essere un inferno.
Capisco bene che è tutta una questione di circostanze e prospettiva. A seconda del viaggio, della meta, del punto nel quale ci troviamo, qualcosa può sembrare irrilevante o drammaticamente importante.
Senza questa premessa, parliamo del nulla. Un approccio politicamente corretto, fondamentalmente sbagliato, quantomeno poco utile.
Un po’ la “storia dell’ Africa”.
Molti della mia generazione credo siano cresciuti così. “Mangia perché in Africa ci sono bambini che non hanno nulla…”
Ragionando così… beh è sempre una splendida giornata. Le nostre vite sono fantastiche. La mia è meravigliosa. Questa newsletter e le righe che sto scrivendo? Le lamentele di un bianco viziato…
Ovviamente non funziona così.
Qui forse c’entra ancora il significato di empatia.
Che spesso è associato al fare sempre qualcosa, dover fare qualcosa. Non solo “mettersi nei panni di un altro” ma anche e soprattutto farsi carico dei suoi problemi.
Ho scoperto che in Giappone hanno una parola per indicare tutta questa roba qui: Omoiyari, un sentimento di empatia e compassione che ci spinge a compiere gesti altruisti.
Fantastico. Ma non sempre è possibile.
Si può essere empatici, vicini, anche senza fare nulla di, almeno apparentemente, concreto.
Condividere il proprio dolore, le proprie sfide, già è una forma di empatia. Di rispetto del dolore e della vulnerabilità umana. Non girarsi dall’altra parte, è empatia. “Non rimanere vestiti mentre altri si spogliano”, è empatia.
“Compatire”, per quanto sia una parola stupenda, invece non sempre lo è.
Anzi, spesso è quello che ci rende più distanti.
Mi viene in mente “uno dei primi giorni dopo”.
Cena veloce a casa. Due amici a farmi compagnia. Qualche birra. Poi tra di loro scatta un momento di tenerezza: un bacio. Nulla di plateale ma scattano entrambi come avessero riso a crepapelle in chiesa, il giorno del funerale.
“Oh scusa…”
Rido.
Mi viene in mente Lewis e il suo diario del dolore. Quando diceva che la gente lo guardava spaventata…
Per alcuni sono peggio che un imbarazzo: sono un teschio. Quando incontro due sposi felici, so che pensano: «Un giorno uno di noi due sarà come è lui ora». C.S. Lewis
Rido. Rido anche oggi ripensandoci. Rido, non riesco a fermarmi…
Ma intendo proprio questo.
Nessuno che soffre vuole che soffra anche tu.
Né tantomeno sapere che la tua vita va ugualmente a puttane.
Poter essere me stesso, umano, poter soffrire, essere problematico, a volte giù e scazzato, liberamente, questo sì.
Sapere che anche tu sarai te stesso, con le tue sfide e vulnerabilità, questo sì.
Non scusarsi per la nostra vulnerabilità, per non essere perfetti, per non avere il manuale delle risposte, questo sì.
Spogliarsi entrambi. Mostrare strappi e toppe nei vestiti, anche se di natura diversa.
Questo sì.
Morirà una mamma?
Tornando al sito di prima, quello “consigliato” da Ricky Gervais. In parte è stata una delusione. Mi aspettavo una cosa moderna, super usabile, condita da AI… (hey forse qui c’è spazio per un business?). E invece è un sito che sembra catapultato con una Delorean dagli anni 60’.
Questo per dire che non l’ho esplorato più di tanto.
Avrei qualche idea su cosa chiedere e farmi spoilerare prima di avventurarmi in un film.
Su una certa categoria di film invece non ci sarebbe bisogno di chiedere.
Sapete ad esempio quali sono i film con il maggior numero di morti e morti cruente? No, non i thriller. Ma i cartoni.
“I personaggi importanti dei film d'animazione per bambini presentavano un rischio maggiore di morte rispetto ai personaggi dei film drammatici per adulti.” Fonte
D’altronde è abbastanza intuitivo.
La maggior parte sono riproduzioni di favole. Che seguono il classico viaggio dell’eroe: tutto va bene sino a quando… e vissero felici e contenti.
Il punto iniziale sta quasi sempre nella morte del papà o della mamma.
Come inizia Biancaneve? Come inizia Nemo? Come inizia Frozen?
La maggior parte dei film di animazione, delle storie, iniziano con un lutto. Ma è solo una parentesi.
Nemo perde la mamma. Ma il papà in un attimo già se la cava benissimo.
Biancaneve perde la mamma ma in fondo il problema è che il padre abbia scelto una nuova, ma cattiva, moglie.
E così via.
La morale che se ne trae ogni volta è che si tratti appunto di una parentesi. Normale, inevitabile, ma tutto sommato trascurabile.
Le sfide sono altre… perdersi e ritrovare la strada (vero Nemo, vero Hansel e Gretel?), sconfiggere i cattivi. Potrei continuare. Il copione è sempre lo stesso.
Ferite e cicatrici: un problema culturale
Non solo non parliamo di morte. In generale non parliamo abbastanza, né vogliamo ascoltare davvero il dolore.
Il dolore vero. Il dolore in azione.
Ci piace dopo. Impacchettato in un libro con un titolo rasserenante. Tipo “10 cose che ho imparato dal lutto per vivere felice”. “Come sono rinata dopo un divorzio” ecc.
Tempo fa la stessa Brene Brown, la voce più forte in questi anni sulla vulnerabilità, lo ha detto chiaramente.
“Tutti abbiamo subito delle cadute e tutti ci siamo sbucciati le ginocchia o spezzati il cuore. Tuttavia, delle cicatrici è più facile parlare che mostrarle quando le sensazioni sono ancora vivissime, per cui è raro vedere ferite in via di cicatrizzazione. Non so se sia perché ci vergogniamo troppo a mostrare agli altri il processo così intimo della sopportazione del dolore, o perché quando troviamo il coraggio di mostrare la nostra guarigione ancora incompleta gli altri distolgono automaticamente lo sguardo. Preferiamo di gran lunga che le storie di fallimenti e rinascite siano edificanti ed edulcorate. In un discorso di mezz’ora non si dedicano normalmente più di trenta secondi alla fase della rimarginazione, che si liquida velocemente con frasi come: «E poi ho risalito la china», oppure «E poi ho conosciuto una persona nuova».”
Quello che succede davvero vivendo un lutto (ma in generale con il dolore, con le difficoltà, con gli incidenti che nel percorso mettono a soqquadro le nostre esistenze) è che si viene esposti quasi sempre a narrazioni distorte e parziali.
Come la storia del “combatti”. E quella del “ce la farai”. Come la storia delle cicatrici e delle ferite. Come la storia di chi ne è uscito trasformato e migliore.
C’è un nome anche per questo, “Survivorship bias”: i successi danno maggiore visibilità dei fallimenti, quindi sopravvalutiamo sistematicamente le probabilità di successo.
Nel caso del dolore, e in particolare della morte, credo la tendenza sia amplificata. Perché nessuno vuole sentire parlare di dolore. E nessuno vuole che gli si ricordi che la morte (ma più in generale l’incertezza) fa parte delle nostre vite e non è qualcosa che controlliamo; nessun manuale per evitare di finire dall’altra parte…
Quel che rimane dunque è un “combatti”, “ce la farai…”
E quasi sempre tanto silenzio sino a quando non sarai in grado di alzarti di fronte a una platea e raccontare la tua storia di successo. O scrivere un libro dal titolo “Ce l’ho fatta”.
Che cosa abbiamo in comune?
Ciò che abbiamo in comune è un problema nel parlare di dolore. Ma soprattutto nel viverlo liberamente. O nel stare vicino, senza per questo doversi trasformare in “salvatori e salvatrici”.
Marlowe, un professore emerito di psicologia e vedovo dal 2021, l’altro giorno nella sua newsletter scriveva così: “Sento una pressione irrealistica (da parte mia, non di nessun altro) ad essere ottimista quando scrivo. Questo perché, suppongo, voglio incoraggiare gli altri. Ma un modo paradossale per essere incoraggianti è raccontarlo così com’è. Il dolore non è molto divertente. Non è una passeggiata nel parco…”
Un modo paradossale per essere incoraggianti è raccontarlo così com’è.
Ogni tanto capita anche a me di pensarlo. Di dover rendere tutto divertente. O istruttivo. A volte no.
Scrivo per condividere il mio viaggio nel dolore. Senza aspettarmi che qualcuno venga a salvarmi. O di salvare qualcuno.
Con la speranza che qualcuno però possa ritrovarsi in quello che scrivo. Nelle paure, nelle debolezza, nella vulnerabilità.
E tirare un sospiro di sollievo.
Fiuu.
Non sono solo. Non sono sola.
Non sono sbagliato. Non sono sbagliata.
Siamo umani, cazzo!
Si può soffrire. Si può non avere la forza. Si possono non avere tutte le risposte. Essere ancora in modalità ferita che sanguina. Essere in ritardo alla fase cicatrice, dove ti alzi e dici “e poi ce l’ho fatta”. “Ecco cosa ho imparato”.
E non vale solo nei casi “gravi”.
Nel lutto. Vale anche se qualcosa per te di importante ha scombinato tutti i tuoi piani.
A volte vale anche se piangi per il tuo cane…
Non sminuisce il mio dolore. Così come sminuire il tuo dolore non renderebbe più leggero il mio.
Non offende chi “soffre di più…”
Semplicemente, ci rende umani.
E un po’ più vicini.
Tutto qui.
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Ad ogni modo, se sei arrivato a leggere sin qui, hai già fatto tanto. Poco o tanto che sia hai contribuito a farmi sentire meno solo. Meno idiota.
Sai che a me quando le persone mi parlano di separazioni e divorzi paragonandoli - implicitamente o esplicitamente - a un lutto io penso: da un certo punto di vista, meglio un lutto? Cioè, non sto qui a fare la graduatoria del dolore. Ma in un certo senso a me sapere che Federico non mi ha lasciato per sua scelta mi aiuta. Ok, forse sono andata fuori tema e sono anche - probabilmente, come sempre - troppo cruda e diretta. Ma l'abbiamo capito che io sono una fan delle parole anche crude e dirette per parlare delle cose. <3
Gran servizio, "Does the Dog Die". Sono interessantissime anche le categorie di trigger (ok, io sono una che non si triggera facilmente e tutto sommato anche abbastanza cinica). Comunque, ci sarebbe da fare uno studio sociologico (https://www.doesthedogdie.com/categories). Alla prossima newsletter, Davide.