La presenza dell'assenza
Frasi pop, abissi, verità spiaccicate su parete, e la presenza dell'assenza. Quel che conta quando quel che conta non c'è più.
"It's not what we have in life, but who we have in our life that matters!"
C'è un bagno in questa casa dove non "vado" più. Nel senso che non lo uso come si usa un bagno normale. Eppure, ci entro dieci volte al giorno. Forse di più. È quello al piano terra, quello di servizio. Lavandino, specchio, finestra sul giardino. Quello dove si truccava la mattina, sempre in ritardo. Dove si stirava i capelli per un tempo infinito ("Ho finito!", mentiva). Dove lasciava un profumo che ora annaspo per ricordare, aggrappandomi a molecole invisibili. È il bagno di quella sera. La sera in cui tutto è finito e ricominciato in modo diverso. In modo sbagliato.
Da allora, ci gravito attorno. Mi invento scuse per entrarci, come un ragazzino scemo sotto la finestra della tipa che gli piace. Sciacquarmi la faccia (potrei farlo in cucina). Controllare la lavatrice (la sento centrifugare da tre stanze di distanza). Spesso, semplicemente, mi ritrovo lì. Davanti allo specchio. A guardarmi. A pensare se quegli attimi potessero tornare indietro. Quelli che sembravano routine, e invece erano tutto. Punto. Fine. Nuova pagina. Che vita del cazzo. Me lo dico fissandomi negli occhi. "Capito, adesso?" Sì. Credo. Una litania silenziosa che va avanti da quasi due anni.
Oggi, alzando lo sguardo dallo specchio, l'ho visto. Appeso storto sulla parete a destra. Un quadretto che non avevo mai notato. O che avevo rimosso. Corsivo elegante, sfondo bianco, cornice di plastica da due soldi. Roba sua, sicuro. "It's not what we have in life, but who we have in our life that matters!" Mi fissa. Beffardo. Stronzo.
Il percorso per arrivare lì è quasi un rituale. C'è da passare davanti a quella parete tra il bagno e la cameretta, quella che lei aveva trasformato in una galleria di ricordi appiccicati con lo spago. Uno stile "shabby", lo chiamava. C'è un mobiletto che dovevamo spostare da anni. C'è una nostra foto, vecchia, di sei o sette anni fa. Siamo brutti. Veramente brutti. Di quella bruttezza che vedi solo nelle foto o quando senti la tua voce registrata. Se l'avessi notata prima, le avrei detto: "Toglila, fa schifo". Lei avrebbe risposto: "Lo sto facendo...", e la foto sarebbe rimasta lì per sempre. Come ora. Testimone immobile.
Forse è per questo che finisco sempre lì, in quel bagno. Per passare davanti a quella foto. Non ne ho altre, di lei, appese per casa. Solo quelle sul telefono, che l'algoritmo mi propone sadicamente ogni giorno. "Ricordi di oggi". Come se servisse una notifica. Ma le foto stampate sono diverse. Sono presenze silenziose. Le senti anche se non le guardi. Mi fermo un istante. Interrogazione a sorpresa. Me la ricordo? Certo che me la ricordo. Ma la paura che qualche pezzo svanisca c'è sempre. L'odore. Le linee del viso sotto un'altra luce. La voce.
A volte mi sforzo di ricordare la sua voce esatta. Come quando ti sfugge una parola di una canzone. Il cervello protegge, forse. Lima i contorni per non fare troppo male. Serve un appiglio. Una sua frase tipica. O basterebbe premere play sul telefono. Un archivio infinito di messaggi vocali. Era la sua ossessione. "Faccio un audio che mi sbrigo", diceva, mentendo a se stessa. Ci metteva il triplo del tempo, divagando, aggiungendo dettagli inutili. "Spero di essermi spiegata...". Le parole non le bastavano mai. La nostra chat era un ping pong surreale: miei testi stringati, suoi monologhi vocali. Per la spesa, per il dentista, per dire che era in ritardo. Io rispondevo quasi sempre con l'emoji del pollice in su. L'ok universale di chi non ha tempo o voglia di ascoltare. "Chiudi i cani sto arrivando". Un classico. Rispondevo "ok" in automatico, spesso durante una call. Andavo a intuito: sotto i dieci secondi, significava "arrivo". Funzionava. Tranne quella volta che mi scrisse subito dopo, stavolta un testo: "Ok cosa??? [Parolacce varie]". Era rimasta a piedi con l'auto. L'automatismo mi aveva tradito. Avrei dovuto ascoltare. Dettagli. Ora quegli audio sono lì. Lettere sigillate. Ogni tanto la tentazione di aprirle arriva, ma resisto. Come se ascoltarli li consumasse, li rendesse finiti per sempre.
Meglio il pellegrinaggio. Passare davanti alla foto brutta, entrare nel bagno che non uso. Fissare il mio riflesso. E oggi, scoprire quel quadretto. "It's not what we have in life, but who we have in our life that matters!" Mi sale una rabbia sorda. "Che cazzo vuoi?" borbotto tra me e me. Lui niente, resta lì con la sua frase del cazzo. Verità universale che suona come una presa per il culo cosmica. Vorrei staccarlo, bruciarlo fuori con le erbacce secche. Ma non lo faccio. Era suo. L'ha messo lì lei. E quindi resta. Come le sue scarpe nella scarpiera. I suoi vestiti nell'armadio accanto ai miei. Il suo shampoo per capelli ricci nella doccia. Pezzi sparsi ovunque. Presenze.
"It's not what we have... but who we have... that matters!" La frase mi rimbalza in testa. Adesso avrò mille altre scuse per tornare in quel bagno. Per farmi fissare da quella scritta. Per chiedermi se ho capito davvero cosa conta. Adesso. Che è troppo tardi per dimostrarlo nel modo giusto.
Forse è come scriveva Bianchi sulla "vita di chi resta". Il conflitto tra la persona che vuole dimenticare e lo scrittore che deve ricordare, guardare nell'abisso. Il mio abisso ha le piastrelle bianche, puzza vagamente di candeggina, ha la cesta della biancheria stracolma e un quadretto motivazionale del cazzo appeso storto. Un disordine perfetto dove tutto sembra immobile, inchiodato a quella sera. Entro con una scusa e mi ritrovo in un loop temporale. Faccio fatica a ricordare il suo profumo, ma sento ancora le urla. "I bambini, Davi. Mi raccomando..." Chissà se i muri assorbono il dolore, la paura. Nel mio abisso, pare di sì.
"It's not what we have in life, but who we have in our life that matters!" Eccolo di nuovo. Insiste. Che poi, a pensarci bene, non dice una cazzata. La penso così anche io. Ma è la differenza tra una verità astratta e la stessa verità sbattuta in faccia dalla vita. Ora suona oltraggiosa. Banale. Crudele. Come uno slogan pubblicitario applicato a una tragedia.
Non ce l'ho con il quadretto in sé. Ce l'ho con le semplificazioni. Con chi spaccia per universali verità che calzano solo a pochi. Con chi ha letto un libro, visto un film, vissuto una cosa e pensa di aver capito tutto. Di sapere come funziona per te. Come se fossimo tutti uguali, intercambiabili.
Immagino sia una battaglia comune, questa. Quella contro le frasi fatte che ti piovono addosso quando meno te l'aspetti, quella contro gli oggetti che restano lì, immobili, a ricordarti tutto, anche quando vorresti solo un attimo di pace. Ognuno avrà il suo quadretto del cazzo appeso da qualche parte, metaforico o reale che sia, a fissarlo con una qualche verità inopportuna.
"It's not what we have in life, but who we have in our life that matters!", è il mio. Mi fa incazzare. Ma resta lì. Dice la sua verità, fuori tempo massimo. Testimonia. Non la presenza. L'assenza. E il casino che lascia.
E se iniziassi a pensare alla "Presenza della presenza"? La tua per i tuoi figli. Magari è presto per spostare quel quadretto, in termini di luogo, di significato e di destinatario. Magari non è giusto farlo. Ma c'è qualcuno, a casa, che conta sulla tua presenza. Anche se ti chiederanno una Playstation 5 a Natale.
Non riesco nemmeno a immaginare cosa possa fare questo veleno a te come persona, ma, mi ripeto, sembra che per lo scrittore sia un catalizzatore: ogni post è meglio del precedente, e sto cominciando a temere il momento in cui non avrai più un passato da raccontare!