La migliore scusa del mondo
In Bhutan, c'è un proverbio: "Pensa cinque volte al giorno alla morte e avrai una vita felice". Folle? Forse. Ma forse è anche per questo che il Bhutan è uno dei paesi più felici del pianeta...
Un papà, tre figli, mamma non c'è più. La vita continua, dicono. Il mondo non si ferma. “Ok. Ci proviamo”. Questa newsletter racconta storie che molti preferiscono tacere. Cose che sembrano indescrivibili e per le quali si dice “non ci sono parole”. Ma ci sono. E parlano di respiri mozzati, di quando ti manca il respiro. Di vita e morte, lutto e amore. Di esseri umani. Non eroi, non invincibili. Che provano ad andare avanti. Insieme.
Tempo fa è venuto a trovarmi un caro amico.
Si parlava del più e del meno, il classico aggiornamento tra chi non si vede da tanto tempo.
È sempre stato un giramondo, ma adesso - sorpresa - mi dice di aver comprato una casa qui in città.
Gli chiedo se non pensava invece di stabilirsi in quel paradiso tropicale dove ormai ha affari ed affetti.
Mi ha risposto senza neanche doverci pensare su:
“Beh sì ma non adesso. Immagino la mia vita lì ma più in là. Diciamo tra una ventina d’anni…”
🙄
Il tempo dei mortali
Invidio (o compatisco) chi ha l’ardire o l’innocenza di programmare così a lungo termine.
E ritardare la vita così a lungo termine.
Il mio amico però non è affatto un caso isolato.
Parla con le persone e la maggior parte ragiona (più o meno consapevolmente) così.
Il futuro è sempre stato il nostro spazio motivazionale.
Lì, nel futuro, è dove in fondo si gioca la più grande partita: quello delle scelte che faremo oggi, ma anche il valore che assegniamo all’oggi.
Senza dover citare a caso, per l’ennesima volta, l’esperimento dei Marshmallow, è abbastanza intuitivo che quando scegliamo di fare qualcosa lo facciamo in vista di una ricompensa futura. O per evitare una punizione; ancora una volta: una certa situazione futura.
In questo c’è chi è più bravo di altri.
Chi riesce a sacrificare i piaceri, a volte futili e banali, del presente, per un futuro migliore.
Chi se ne frega. O semplicemente non ha la forza per dire di no; e si mangia quel marshmallow…
L’idea comunque è abbastanza semplice da capire. Il paradigma è quello lì: Vita/sofferenza e Paradiso/ricompensa.
Una vita da formica perché le cicale sono delle stronze irresponsabili che faranno una brutta fine.
Una costante e più o meno ragionata, monotona e incessante, progettazione di exit strategy.
Un’idea tipica da startup che prevede sin dal principio di pensare, pianificare, inseguire il momento nel quale ti tirerai fuori e avrai indietro soldi e vita, una giusta ricompensa.
Parlando con amici che hanno a che fare con dinamiche di questo tipo, pare circoli proprio l’idea che i founder debbano soffrire (non essere pagati, vivere di stenti, dormire due ore a notte), quale giusto segnale che ci credono e giusto obolo da versare al futuro successo.
Sempre nello stesso ambiente, ma è un consiglio che spesso viene dato anche a chi sogna un cambio netto (licenziarsi e mettersi in proprio ad esempio), c’è un’idea simile: l’anno anti sabbatico (o anno di mmerda). In sostanza: per un anno ingoia più rospi possibili per permetterti di fare ciò che vuoi l’anno dopo…
Ma in generale, è la maggior parte del nostro tempo su questa terra che gestiamo così.
“Prima il dovere poi il piacere” è lo slogan con il quale in un qualche momento della storia ci è stato venduto calvinismo, capitalismo e un mucchio di idee poco sensate che nonostante tutto reputiamo “sagge”.
Il punto però che, se ragioniamo da mortali, il tempo non lo controlliamo affatto.
Come ha scritto Oliver Burkeman in: “Quattromila settimane”:
“la durata media della vita umana è scandalosamente breve. Chi tra noi raggiungerà gli 80 anni avrà vissuto poco più di 4000 settimane. Com'è possibile formulare piani ambiziosi in un lasso di tempo così effimero?”
Ma soprattutto, come è possibile che spostiamo nel futuro (che non sappiamo come sarà né se avremo) tutti i nostri migliori obiettivi?
Domani finalmente potrò…
Domani sarò…
Domani starò…
È una situazione buffa se ci pensiamo.
Si dice non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi. Ma lo si usa più che altro per quella roba lì: “faticare”, “sacrificarsi”, “fare il tuo dovere”.
Ciò che dice il detto (saggio?) è insomma non rimandare la fatica a domani, ma rimanda serenamente a domani la tua felicità.
E se poi domani non arriva? E se le cose cambiano? E se non saremo più su questa terra?
ExiSt Strategy
In “Company Of One”, Paul Jarvis, sfiora un’idea diversa e intrigante: exiSt strategy.
Anziché progettare una via di fuga, anziché lottare per un domani completamente diverso, cosa accadrebbe se l’obiettivo fosse lottare per quello che abbiamo? Oppure, cosa accadrebbe se accettassimo che le cose non cambieranno affatto, non nel senso di rivoluzione (exit strategy)?
Il primo punto ha molto a che fare con il tema del libro: il minimalismo. Si tratta di togliere più che aggiungere. Di mantenere più che conquistare. O, per dirla con le parole di Jarvis: “Se riuscite a scoprire perché avete bisogno di più, potrete arrivare a conclusioni migliori…”
Qui mi viene in mente quel fottuto genio di Cedric Price, architetto inglese, tra i più autorevoli esponenti delle avanguardie britanniche (questo me lo ha detto wikipedia).
Pare che una volta abbia detto ad un amico che lo supplicava di aiutarlo a trovare una casa più grande, per avere più privacy e spazi: “non hai bisogno di una nuova casa, hai bisogno di un divorzio”.
Beh, il primo punto riguarda queste domande qui.
Il secondo punto invece riguarda più il discorso del tempo e di come progettiamo le nostre vite. Un modo forse per uscire da quella trappola dove ci siamo infilati (Vita/sofferenza e Paradiso/ricompensa).
Se togliamo un po’ di “futuro” dai nostri piani e ci concentriamo sul presente, accadono cose interessanti.
E no, non sto dicendo per l’ennesima volta “vivi il momento…
Mi riferisco a un modo diverso di progettare le nostre vite cercando di includere ogni giorno un certo quantitativo (ovviamente non si può pensare tutto…) di cose belle. Di cose sostenibili. Di cose che effettivamente dovrebbero stare nella vita di un mortale che non controlla il tempo.
Sganciarsi dagli obiettivi di lungo termine e provare a raggiungere quelli nel breve termine. Giorno dopo giorno.
Ho trovato interessante questa vecchia intervista a Steve Albini (scomparso proprio in questi giorni). Criticando la narrativa che ci vuole sempre focalizzati sugli obiettivi dice una cosa tanto semplice quanto illuminante:
“Penso che gli obiettivi siano piuttosto controproducenti. Ti danno un obiettivo e fino al momento in cui raggiungi quell'obiettivo sei stressato e insoddisfatto, e nel momento in cui raggiungi quell'obiettivo specifico sei senza meta e hai perso la stella polare della tua esistenza. Ho sempre cercato di vedere tutto come un processo. Voglio fare le cose in un certo modo di cui posso essere orgoglioso, che sia sostenibile e giusto ed equo per tutti coloro con cui interagisco. Se riesco a farlo, allora è un successo, e il successo significa che potrò farlo di nuovo domani.”
“Il successo? Farlo ancora domani”
Ecco, credo che questo possa essere davvero un modo intelligente di fare i conti con la vita. Un modo tanto audace quanto pragmatico.
Farlo ancora domani ti porta subito a pensare che quello che fai oggi non deve farti schifo (non sogni che un giorno smetterai).
Dunque, se domani farai ancora quella cosa che fai oggi, oggi cosa sceglierai di fare?
Non è una filosofia semplicistica che ti dice “fregatene del domani…”. Ti porta a includere un (eventuale) domani e il fatto che tu debba farci i conti.
Una ExiSt strategy penso si possa definire in questo modo, su questa linea di pensiero: progettare una vita che ritieni soddisfacente anche senza il colpo di scena, la botta di culo, la pensione d’oro…
Oppure, potrebbe semplicemente essere un remind gentile che in fondo ti dice: “coglione, non ha successo se non vedi l’ora che sia domenica, natale, le ferie di agosto, per smettere di fare ciò stai facendo ogni giorno…”
“Qui non si parlava di altro sesso o di bungee jumping…”
Quando Bronnie Ware, un’infermiera australiana a contatto con pazienti terminali, ha iniziato a raccogliere le ultime illuminazioni prima di morire, ha “scoperto” una cosa comune a tutti. A nessuno interessava più “il sesso o il bungee jumping”. Le promozioni, avere più o meno successo del vicino di casa, del compagno di liceo…
Tutti avevano una visione chiarissima di ciò che nella vita contava davvero. A un passo dalla morte, tutti capivano chiaramente cosa si fossero davvero persi.
1. Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita fedele a me stessa, non la vita che gli altri si aspettavano da me.
2. Vorrei non aver lavorato così duramente.
3. Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti.
4. Vorrei essere rimasto in contatto con i miei amici.
5. Vorrei aver permesso a me stesso di essere più felice.
Questi i cinque grandi rimpianti.
Un sesto, facendo una sintesi, credo potrebbe essere questo: “vorrei non aver aspettato domani per essere felice…”
Vorrei non avere avuto le idee così chiare sulla vita solo in punto di morte…
Ecco, una buona ExiSt strategy al di là di tutto, dovrebbe servire a questa cosa qui: pianificare i nostri rimpianti.
Pianifica i tuoi rimpianti
L’altro giorno parlavo con un amico (sì parlo tanto…).
Lui è una delle persone che stimo di più e che negli ultimi anni mi è stato più vicino in assoluto.
Parlando della mia situazione (emersa forse con troppa forza nella newsletter della settimana scorsa), ha iniziato a incalzarmi: “ok, cosa pensi di fare?”
Secondo lui, e condivido, c’è un limite allo stato per così dire di emergenza. E un momento nel quale bisogna fare i conti con la situazione e darsi comunque da fare.
Pur comprendendo bene tutti gli attuali vincoli e limiti, lui non si dà pace del fatto che non riesca comunque a venirne fuori.
Che con le mie capacità e relazioni non sia in quel momento della storia nel quale al di là del dolore metta a posto almeno le cose concrete (sì, si parla di soldi).
Continuando nelle riflessioni ad un tratto ha centrato il punto: “il problema è che adesso hai una buona scusa”...
🧐
Sì, ok, non suona benissimo.
Ma lui mi conosce bene.
E quello che mi ha detto ha senso.
Condivido completamente.
Anche prima sono sempre stato poco portato ai sacrifici, a quel paradigma lì: “Vita/sofferenza e Paradiso/ricompensa”.
A dispetto di tutti i libri, discorsi, pipponi sull’uscire dalla propria zona di comfort io sono sempre stato attaccato, gelosamente, orgogliosamente, alla mia zona di comfort.
Niente lavori che mi portino via troppo tempo.
Niente clienti con i quali non uscirei a bere una birra.
Niente lavori che prevedano spostarmi da casa.
Niente che insomma si metta in mezzo tra me e la mia vita, tra ciò che per me ha sempre contato davvero: la mia famiglia, le mie passioni, la gioia di non dover vivere costantemente sotto pressione.
Sono sempre stato così. E negli anni ogni mia decisione ha sacrificato qualcosa: soldi, relazioni professionali, collaborazioni prestigiose.
Però avevo quello che desideravo e mi bastava.
Ogni mia decisione fondamentalmente pianificava un qualche tipo di rimpianto, sceglievo di averli sul terreno lavorativo anziché su quello intimo e personale.
E adesso?
Adesso ovviamente questo ha un costo maggiore - come raccontavo nella scorsa newsletter.
Ma ha anche più senso.
Ho davvero, come dice il mio amico, “una buona scusa”.
Anzi, ho la migliore scusa del mondo.
La migliore scusa del mondo
Cosa accade dopo la morte?
È la domanda alla quale tutta la nostra intelligenza, la nostra tecnologia, non ha saputo rispondere e (probabilmente) non saprà rispondere mai.
E cosa accadrebbe se qualcuno tornasse a dirci cosa ci aspetta?
Beh, cambierebbe molto le carte in tavola.
Proviamo a fare un gioco. Ipotizziamo due scenari. Anzi, facciamo tre.
Scenario A: “Hey ragazzi, qui è uno spasso”
Aldilà fantastico. Niente paura della morte. Niente fame di vita.
Scenario B: “Hey ragazzi, qui dipende…”:
Proprio come raccontato da Dante. Fare i bravi, andare a messa, aiutare il prossimo.
Scenario C: “Hey ragazzi, qui non c’è un cazzo…”
No comment.
Ma è un gioco di fantasia. Nessuno verrà mai a dirci cosa ci aspetta dopo. Cosa c’è quando si va dall’altra parte.
Eppure, io posso dire cosa c’è qui. Cosa c’è per chi resta.
Il lutto è una merda. Non ci sono lati positivi.
Ma ti insegna tanto.
Un corso intensivo sul tempo che ci appartiene: poco e non quantificabile.
Un corso intensivo su cosa sia spostare a domani la tua felicità: una stronzata.
Un corso intensivo su quanto conti il parere degli altri sulle tue decisioni: un cazzo.
Un corso intensivo su cosa vale davvero la pena: lo decidi solo tu.
Potrei continuare…
C’è un corso speciale, costoso, schifosissimo, al quale non avrei voluto partecipare e avrei fatto volentieri a meno di essere iscritto: il lutto. Non c’è alcuna materia interessante, nessuna attività extra stimolante, docenti assenti, compagni anche. Ma una cosa la impari.
La sera, prima di dormire. La mattina appena apri gli occhi o tenti di aprirli. Una carrellata di momenti belli ma anche e soprattutto di tutti quei momenti che nella fretta avevi bollato come complicati o orribili. O banali. E oggi invece pagheresti per poter rivivere con un rewind. E in quei momenti impari.
Non sbattersi abbastanza, non sacrificare tutto, non è una colpa. Sei giustificato. Hai la migliore scusa del mondo: sei umano. Sei mortale. Non sai quanto tempo hai. Non sai quanto tempo con chi ami. Non sai cosa accadrà domani, se ci sarà un domani. Fai del tuo meglio oggi. Speri di “farlo ancora domani”.
Tutto qui.
E “Soddisfatti o no qua non rimborsano mai”.
Come cantava Liga.
EXTRA (…dove si parla del non farmi sentire un idiota, e fare qualcosa in più…)
Ci sono quasi duemila persone che leggono questa newsletter. 🙏
È qualcosa di pazzesco, considerando anche i numeri di chi non solo ha cliccato “iscriviti” ma si prende davvero il tempo di leggermi. E molto spesso di rispondermi.
Come spesso ho detto e amo ripetere: mi fa sentire meno idiota nel condividere pubblicamente la mia vulnerabilità.
Spinto da questo affetto, avevo avviato anche un piano per sostenermi via Substack con un abbonamento. Ma non ha funzionato. E non credo possa funzionare.
Ogni abbonamento mi fa stare male. Perché in qualche modo mi riporta sul quel terreno del “ti do questo, tu mi dai questo”. E nella mia situazione non sempre riesco a garantirlo.
Quest’ultimo anno però mi ha insegnato che vivere il lutto richiede un tipo di forza e sostegno che va oltre.
Così come la possibilità di continuare a scrivere questa newsletter.
Per questo motivo, ho deciso di offrire anche un’opzione diversa: una donazione libera - una tantum, non ricorrente.
Un gesto di empatia non vincolato da obiettivi specifici o promesse di ricompensa.
Un sostegno diretto, semplice e sincero. Per chi vuole dare una mano e per chi apprezza le mie riflessioni ad alta voce.
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Ad ogni modo, se sei arrivato a leggere sin qui, hai già fatto tanto. Poco o tanto che sia hai contribuito a farmi sentire meno solo. Meno idiota.
Da 12 anni, con i miei limiti, cerco di vivere come se dovessi morire domani o come se tutte le persone attorno a me potessero morire domani. Questa newsletter però mi ha aiutato a fare una cosa difficile, nonostante tutto, quindi, grazie.
Condivido in toto. Se non l’hai ancora letto, ti consiglio “Lettere a Lucilio” di Seneca. Un po’ meno nobile - molto meno nobile - la mia prossima newsletter di domenica prossima parlerà della mia esperienza vicino alla morte e di cosa mi abbia insegnato, ma stento ancora ad imparare.