La migliore scusa del mondo
In Bhutan, c'è un proverbio: "Pensa cinque volte al giorno alla morte e avrai una vita felice". Folle? Forse. Ma forse è anche per questo che il Bhutan è uno dei paesi più felici del pianeta...
Tempo fa è venuto a trovarmi un caro amico. Si parlava del più e del meno, il classico aggiornamento tra chi non si vede da tanto. È sempre stato un giramondo, ma adesso - sorpresa - mi dice di aver comprato una casa qui in città. Gli chiedo se non pensava invece di stabilirsi in quel paradiso tropicale dove ormai ha affari ed affetti. Mi ha risposto senza neanche doverci pensare su: “Beh sì ma non adesso. Immagino la mia vita lì ma più in là. Diciamo tra una ventina d’anni…” 🙄
Invidio (o compatisco) chi ha l’ardire o l’innocenza di programmare così a lungo termine. E ritardare la vita così a lungo termine. Il mio amico però non è affatto un caso isolato. Parla con le persone e la maggior parte ragiona (più o meno consapevolmente) così.
Il futuro è sempre stato il nostro spazio motivazionale. Lì si gioca la partita delle scelte di oggi, ma anche del valore che assegniamo all’oggi. Senza scomodare l'esperimento dei Marshmallow, è intuitivo: scegliamo spesso di fare qualcosa (o non farla) in vista di una ricompensa futura o per evitare una punizione futura. C’è chi è più bravo a sacrificare i piaceri presenti per un domani migliore (la formica) e chi se ne frega o non ce la fa (la cicala). Il paradigma è quello lì: Vita/sofferenza oggi, Paradiso/ricompensa domani. Una vita da formica perché le cicale sono stronze irresponsabili che faranno una brutta fine. Una costante progettazione di exit strategy.
Un'idea tipica da startup: pianificare da subito il momento in cui ti tirerai fuori ("exit") riavendo indietro soldi e vita come giusta ricompensa. Pare circoli l'idea che i founder debbano soffrire (non pagarsi, dormire poco) come segnale di dedizione e obolo al successo futuro. Un concetto simile è "l’anno anti sabbatico" (o "anno di mmerda"): ingoia rospi per un anno per permetterti di fare ciò che vuoi l'anno dopo. Ma in generale, è gran parte del nostro tempo che gestiamo così. “Prima il dovere poi il piacere” è lo slogan con cui ci hanno venduto calvinismo, capitalismo e un mucchio di idee poco sensate che reputiamo “sagge”.
Il punto è che, ragionando da mortali, il tempo non lo controlliamo affatto. Come scrive Oliver Burkeman in “Quattromila settimane”: “La durata media della vita umana è scandalosamente breve... Com'è possibile formulare piani ambiziosi in un lasso di tempo così effimero?”. Ma soprattutto, come è possibile spostare nel futuro (che non sappiamo come sarà, né se ci saremo) tutti i nostri migliori obiettivi? Domani finalmente potrò… Domani sarò… Domani starò… È una situazione buffa: ci dicono "non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi", ma lo applicano quasi solo alla fatica, al dovere. Rimanda pure a domani la felicità, sembra il sottinteso. E se poi domani non arriva?
In “Company Of One”, Paul Jarvis, sfiora un’idea diversa: exiSt strategy. Anziché progettare una via di fuga (exit), se lottassimo per migliorare quello che abbiamo adesso? Se accettassimo che le cose potrebbero non cambiare radicalmente? Il primo punto riguarda il minimalismo: togliere più che aggiungere, mantenere più che conquistare. Chiedersi perché abbiamo bisogno di "più". Mi viene in mente l'architetto Cedric Price, che a un amico che voleva una casa più grande per più privacy, pare abbia risposto: “Non hai bisogno di una nuova casa, hai bisogno di un divorzio”.
Il secondo punto riguarda come progettiamo le nostre vite, uscendo dalla trappola Vita/sofferenza vs Paradiso/ricompensa. Se togliamo un po’ di “futuro” dai piani e ci concentriamo sul presente, accadono cose interessanti. E no, non sto dicendo per l’ennesima volta “vivi il momento…”. Mi riferisco a progettare diversamente, cercando di includere ogni giorno un certo quantitativo di cose belle, sostenibili, degne di un mortale che non controlla il tempo. Sganciarsi dagli obiettivi lontani e provare a raggiungere quelli a breve termine. Giorno dopo giorno.
Ho trovato illuminante una vecchia intervista a Steve Albini (scomparso di recente). Criticando la fissazione per gli obiettivi, diceva: “Penso che gli obiettivi siano piuttosto controproducenti... ti danno un traguardo e fino a quel momento sei stressato e insoddisfatto, e nel momento in cui lo raggiungi sei senza meta... Ho sempre cercato di vedere tutto come un processo. Voglio fare le cose in un certo modo di cui posso essere orgoglioso, che sia sostenibile e giusto... Se riesco a farlo, allora è un successo, e il successo significa che potrò farlo di nuovo domani.”
“Il successo? Farlo ancora domani”. Ecco, questo mi sembra un modo intelligente e pragmatico di fare i conti con la vita. Pensare di "farlo ancora domani" ti costringe a rendere l'oggi qualcosa che non ti faccia schifo, qualcosa che abbia un senso adesso, non solo in vista di una futura liberazione. Una ExiSt strategy è forse questo: progettare una vita soddisfacente anche senza il colpo di scena finale, la pensione d'oro, la exit milionaria. Oppure, è un promemoria gentile: “Coglione, non hai successo se non vedi l’ora che sia domenica, Natale, le ferie, per smettere di fare ciò che fai ogni giorno…”
Quando Bronnie Ware, infermiera a contatto con pazienti terminali, raccolse i loro ultimi pensieri, scoprì che a nessuno interessava più “il sesso o il bungee jumping”, le promozioni, il successo relativo. Tutti avevano chiarissimo cosa contava davvero e cosa si erano persi. I cinque grandi rimpianti erano:
Non aver vissuto una vita fedele a sé stessi.
Aver lavorato troppo duramente.
Non aver avuto il coraggio di esprimere i sentimenti.
Non essere rimasti in contatto con gli amici.
Non essersi permessi di essere più felici. Un sesto rimpianto, sintetizzando, potrebbe essere: “Vorrei non aver aspettato domani per essere felice… Vorrei non aver capito tutto solo in punto di morte”. Ecco, una buona ExiSt strategy serve a questo: pianificare i nostri rimpianti. O meglio, scegliere quali rimpianti siamo disposti ad avere.
L’altro giorno parlavo con un amico, uno di quelli che stimo di più e mi è stato più vicino. Parlando della mia situazione, mi incalza: “Ok, cosa pensi di fare?”. Condivide che c’è un limite allo stato di emergenza, un momento in cui bisogna darsi da fare. Pur capendo i miei limiti attuali, non si dà pace che io non riesca a “venirne fuori”, almeno economicamente. A un tratto, centra il punto: “Il problema è che adesso hai una buona scusa”... Sì, ok, non suona benissimo. Ma lui mi conosce. E ha senso. Condivido.
Anche prima della tragedia, sono sempre stato poco portato ai sacrifici, al paradigma “soffri oggi, godi domani”. A dispetto dei pipponi sull’uscire dalla comfort zone, io sono sempre stato gelosamente attaccato alla mia. Niente lavori che portino via troppo tempo dalla vita. Niente clienti con cui non berrei una birra. Niente lavori che mi allontanino da casa. Niente che si metta tra me e ciò che conta: famiglia, passioni, non vivere sotto pressione costante. Ogni mia decisione passata ha sacrificato qualcosa (soldi, prestigio) per proteggere questo. Fondamentalmente, pianificavo i miei rimpianti: sceglievo di averli sul terreno lavorativo anziché su quello personale.
E adesso? Adesso ovviamente questo ha un costo pratico maggiore. Ma ha anche più senso. Ho davvero, come dice l'amico, “una buona scusa”. Anzi, ho la migliore scusa del mondo.
Cosa accade dopo la morte? Nessuno lo sa. Ma se qualcuno tornasse a dircelo? Ipotizziamo tre scenari: A) Aldilà fantastico: “Ragazzi, qui è uno spasso!”. Conseguenza: zero paura della morte, zero fame di vita adesso. B) Aldilà meritocratico: “Ragazzi, qui dipende…”. Conseguenza: fai il bravo oggi per la pagella di domani (un po’ come facciamo già). C) Aldilà vuoto: “Ragazzi, qui non c’è un cazzo…”. Conseguenza: terrore della fine, o forse, valorizzazione massima dell'unica vita che abbiamo.
È un gioco. Nessuno tornerà. Ma io posso dire cosa c’è qui, per chi resta. Il lutto è una merda, non ci sono lati positivi. Ma ti insegna tanto. È un corso intensivo sul tempo che ci resta: poco, non quantificabile. Un corso intensivo su cosa sia spostare a domani la felicità: una stronzata. Un corso intensivo su quanto conti il parere degli altri: un cazzo. Un corso intensivo su cosa vale davvero la pena: lo decidi solo tu.
È un corso schifoso a cui non avrei voluto iscrivermi. Docenti assenti, compagni pure. Ma una cosa la impari, la rivedi ogni sera prima di dormire, ogni mattina aprendo gli occhi. Rivedi momenti belli, ma soprattutto momenti che avevi bollato come banali, difficili, orribili, e che oggi pagheresti per rivivere. E lì impari. Non sbattersi abbastanza secondo i canoni del mondo, non sacrificare tutto sull'altare del futuro successo, non è una colpa. Sei giustificato. Hai la migliore scusa del mondo: sei umano. Sei mortale. Non sai quanto tempo hai. Non sai quanto tempo avrai con chi ami. Non sai cosa accadrà domani. Fai del tuo meglio oggi. Speri di “farlo ancora domani”. Tutto qui.
E “Soddisfatti o no qua non rimborsano mai”. Come cantava Liga.
Da 12 anni, con i miei limiti, cerco di vivere come se dovessi morire domani o come se tutte le persone attorno a me potessero morire domani. Questa newsletter però mi ha aiutato a fare una cosa difficile, nonostante tutto, quindi, grazie.
Condivido in toto. Se non l’hai ancora letto, ti consiglio “Lettere a Lucilio” di Seneca. Un po’ meno nobile - molto meno nobile - la mia prossima newsletter di domenica prossima parlerà della mia esperienza vicino alla morte e di cosa mi abbia insegnato, ma stento ancora ad imparare.