Ci sono le parole
Ci sono cose che ci lasciano senza fiato. Ma abbiamo bisogno di parole per andare avanti.
A un certo punto ho temuto che il telefono esplodesse. Che la valanga di notifiche, faccine addolorate e messaggi quasi tutti uguali – cloni, come in quel gioco per bambini sulla memoria – straripasse dallo schermo.
La mattina dopo, praticamente all’alba, qualcuno mi ha chiesto chi avremmo dovuto avvisare. Penso di aver risposto “boh”, o forse borbottato tre nomi in croce. Chi doveva sapere, sapeva già. Nel giro di qualche ora, però, la voce è corsa – un amico, un altro amico, i social. E il telefono è esploso davvero. Bip continui, mani giunte, cuori spezzati e frasi fatte.
“Condoglianze”. Una parola antica, che ho sempre odiato. Sa di formalità polverosa, di distanza. Credo pochi ne capiscano davvero il peso, e fa sentire chi la riceve ancora più morto, più lontano. Tuona “fine”. Game over, ma senza la musichetta ironica dei vecchi videogame.
E poi c’è quella frase. Quella che sembra sempre giusta, quella che non sbagli mai: “non ci sono parole”.
Per capirci: in parte è vero. In parte no. In parte ha senso. In parte è la più grande bugia organizzata e democratica della storia.
Di fronte alla morte le parole possono mancare, certo. Specie se è una morte improvvisa, “prematura” – altra parola su cui ci sarebbe da discutere. Cosa dici a chi si ritrova da un momento all’altro “solo”? Cosa dici a chi è “solo” con tre bambini senza mamma?
Al funerale si è avvicinata una signora mai vista prima, fornendomi un vademecum non richiesto per i miei prossimi anni. “Ora fai questo, poi quest’altro, quando i bambini sono grandi… fatti forza”. Io volevo solo che mi lasciasse il braccio. Volevo acqua, ossigeno e nicotina, fuori da lì.
Capisco sia difficile trovare le parole giuste. E capisco, persino apprezzo, che piuttosto che dire stronzate tipo “adesso sta bene” o “ti guarda da lassù”, molti preferiscano il silenzio o un onesto “non so che dire”.
Solo che “non ci sono parole” spesso non è vero.
Le parole ci sono. Eccome. Sembra non ci siano perché fanno male. O perché fanno paura. Alla maggior parte delle persone, cioè a tutti noi, in fondo.
Come umani, nonostante millenni di esperienza diretta con la morte – vicina, lontana, sfiorata – continuiamo ad aver paura di parlarne, di pensare che possa capitare a noi, all'improvviso. Preferiamo nasconderla nel cestino delle emozioni scomode. Quando poi salta fuori, quando “succede”, restiamo sbigottiti. Ma come è possibile? Che dire? Appunto: “non ci sono parole…”
Lo capisco. Anche se ho conosciuto la morte da bambino – mio padre se n’è andato presto – e ne ho sempre parlato più liberamente della media, mentirei dicendo di essermi sentito a mio agio. Ora è diverso. È come essere stati ammessi d'ufficio in un club esclusivo, con tanto di corso accelerato su questa parte della vita e su come si sta male davvero.
Una volta entrato nel club, lo capisci subito: le parole ci sono. Anche se non le trovi immediatamente, anche se fanno un male cane, anche se a volte si ingarbugliano in gola. Ci sono, e ne hai un bisogno disperato.
Non è un caso che le persone a me più vicine, a partire dai miei figli, le parole le abbiano trovate e continuino a cercarle ogni giorno. Fuori dal club può sembrare folle. Dentro, invece, ne vogliamo parlare. Ne abbiamo bisogno.
Abbiamo bisogno di dire ancora il suo nome ad alta voce. Di dire quanto ci manca. Di provare a spiegarci l’un l’altro quanto è difficile, quanto fa schifo. Abbiamo bisogno di dire parolacce, di urlare quanto siamo incazzati con il destino, con Dio, con il mondo. Abbiamo bisogno di parole per provare a mettere in ordine il caos delle emozioni, per trovare un appiglio, un senso per andare avanti.
C’è bisogno di parole. C’è bisogno eccome di parlare.
Non è che io sia più sveglio degli altri. È solo che adesso ci sono dentro fino al collo. Questo potrebbe anche farmi dire cazzate, sia chiaro. Ma anche se sono passati solo venti giorni [Nota: aggiornare eventualmente il tempo trascorso se serve], penso di aver capito qualcosa. Sul “non ci sono parole”. Sul perché tanti non ne vogliano parlare. E sul perché invece sia necessario sforzarsi di trovarle, e usarle.
Quel “non ci sono parole” credo nasconda prima di tutto un problema di approccio alla vita, e quindi alla morte. La neghiamo così tanto, l'abbiamo nascosta così bene sotto i tappeti dei nostri selfie, delle routine, degli aforismi motivazionali, da non riconoscerla più come parte integrante dell'esistenza.
Forse sono solo molto scosso, ma tanti si sono avvicinati, fisicamente o virtualmente, come ci si avvicinerebbe a qualcuno colpito da un fulmine a ciel sereno: un evento tanto sfortunato quanto percepito come statisticamente improbabile, un'anomalia che non li riguarda – ancora. Ma la morte non è un'anomalia statistica; è, come diceva quella frase di Fight Club, l'unica certezza su una linea temporale abbastanza lunga. Eppure, quel "non ci sono parole" spesso tradisce proprio questo: la difficoltà a vedere il dolore altrui non come un incidente isolato e lontano, ma come parte della condizione umana che, prima o poi, ci tocca tutti.
Nel club, invece, le parole ci sono eccome. E nel club, anche se non sembra, c'è davvero tanta gente.
La prova che questo ragionamento forse non è campato in aria, la vedo nel comportamento degli altri. Chi ci è già passato, chi pensava di aver superato e invece sente ancora la cicatrice tirare, chi magari ci sta dentro proprio ora. Ma anche chi, pur non avendolo vissuto sulla propria pelle, ha quel guizzo di empatia per capire che siamo tutti sulla stessa barca che prima o poi imbarca acqua.
Queste persone – le prime soprattutto, ovviamente – ho sperimentato che di parlare ne hanno voglia. Sentono una connessione immediata. Non so dove ho letto che i “dolenti” riconoscono subito altri “dolenti”. È un po’ questo. Questione di identità, certo, ma anche quel sollievo immenso di essere capiti senza troppe spiegazioni. Ti vedo. Ti sento. So come ti senti.
Tantissimi mi hanno scritto in questi giorni senza nascondersi dietro il "non ci sono parole". Hanno saltato a piè pari formalità e delicatezze di facciata. Hanno parlato la lingua del dolore, sapendo di cosa si tratta. E molti non erano soltanto “tristi per me”. Sembravano quasi aspettare che qualcuno rompesse il silenzio. Perché nonostante siamo la società senza veli apparenti, quella della condivisione perenne, di dolore vero si parla ancora troppo poco. E questa rimozione, vista da dentro il club, fa male. Minimizza quello che stai provando. È come – ho letto da qualche parte – aver subito un terremoto che ti ha distrutto casa e sentirsi dire dai vicini "ma no, è stato solo un rumorino…"
C’è bisogno eccome di parlare.
La settimana scorsa ho raccontato la mia perdita qui su Substack, sui social. In questo mondo virtuale così a suo agio con successi, fallimenti, colazioni, cene, parti, viaggi… ma così impacciato col lutto. Molti mi hanno scritto. Alcuni erano del “club”. Altri, pur con affetto, sono rimasti sorpresi, quasi “scandalizzati”. Hanno parlato di “pudore”.
Capisco anche questo. Ma il pudore è relativo. Per anni mi sono vergognato di vendere; ho perso l’imbarazzo quando è diventato necessario per dar da mangiare ai miei figli. Qualcosa di simile succede quando entri nel club del dolore. Perdi il pudore su certe cose, capisci che non ha senso. Hai solo una voglia smisurata di parlarne, condividere, trovare altri che ti “vedono, sentono, capiscono”. E magari, parlando senza filtri, puoi persino essere d'aiuto a qualcun altro che soffre in silenzio.
Ho cercato online storie simili. Ne ho trovate tantissime (per la cronaca, e non è un dettaglio da poco, la maggior parte in inglese, d’oltreoceano; l’Italia su questo resta molto “pudica”). Esperti, psicologi, professori, markettari, gente comune. Tutti uniti dall’aver incontrato il dolore. Dall’aver barcollato. E dalla voglia di non soccombere, di andare avanti, persino di trovare qualcosa di buono in mezzo al disastro.
Si dice che non abbia senso essere il più ricco del cimitero, che sotto terra siamo tutti uguali. È impreciso. Siamo tutti uguali già da subito, ma ce ne accorgiamo davvero solo nel dolore. È lì che ti viene voglia di parlare sul serio. Quando la struttura della tua vita vacilla, te ne freghi dei titoli, della forma, delle convenzioni. Cerchi solo di connetterti: con te stesso, con gli altri, con te stesso attraverso gli altri.
To be continued.
Sono giorni che mi rimbalza in testa questa frase. Mi faceva incazzare da bambino alla fine dei cartoni animati, lasciava tutto sospeso. Oggi mi suscita emozioni contrastanti. C’è la parte cinica, quella che mi sono detto anche di fronte ai medici che decretavano la fine: bisogna andare avanti comunque, perché il mondo non si ferma. Non lo faranno le bollette, i problemi, le necessità quotidiane. E poi c’è la parte che non oso ancora chiamare “speranza”, ma che sussurra che forse c’è ancora qualcosa là fuori per cui lottare, per cui vale la pena soffrire ancora un po'. A volte credo più alla prima, altre trovo la forza di aggrapparmi alla seconda.
Comunque la si metta, una cosa è certa: ho bisogno di parole. Di provare a trovare le parole giuste. Anche su un tema che fa paura come la morte, e sulla vita che, nonostante tutto, continua.
Perché non è vero che “non ci sono parole”. Ci sono eccome. Servono eccome.
Servono ai miei bambini. Servono a me. E penso servano a tante persone che soffrono in silenzio. E si sentono ancora dire “non ci sono parole…”
Non ci sono parole, ed hai ragione, si rimane senza fiato. Ma ricordo bene le parole di mio padre in quel periodo, quando qualcuno gli chiedeva come va. Cazzo come volevi che andasse. Ma lui diceva sempre "si tira avanti". E questo nel tempo è diventato il mio mantra, un pò tipo "non mollare mai". E' questo che ti fa andare avanti, perchè la vita prosegue per chi rimane. E bisogna fare il possibile per farla diventare la migliore possibile, nonostante tutto.
Mi ricordo quell'anno, purtroppo ancora molto bene, era il 1986, avevo 10 anni. Mia sorella 16.
Forse è un mix di immagini del periodo, ma ricordo di aver visto l'incidente dello Space Shuttle Challenger in camera dei miei, dove a letto c'era mamma. In un televisore portatile rosso, in bianco e nero. Di giorno, perchè stava già male. Poi a marzo, il 24 se ne è andata. Aveva 41 anni. I pochi ricordi sono anche loro in bianco e nero. Perchè la memoria di un bambino, contrariamente ai grandi, riesce ad essere selettiva. Certo, ricordo benissimo quando mi è stato detto che non c'era più, le persone con cui ero, il funerale, ma poi il resto si fa ovattato, come dopo che piangi molto.
Ma la vita di tutti i giorni, appena riprende dopo la momentanea sospensione, aiuta non a pensarci, a mettere da parte i dolorosi ricordi, quello che sarebbe potuto essere la normalità. E si riparte con una nuova normalità.
Per te, per la tua vita, intendo come Davide, come uomo, non sono in grado di darti un aiuto, non ho nessuna parola che ti possa dare uno spunto da cui ripartire.
Per te invece come padre ti posso raccontare come è stato il mio di babbo. Se sono chi sono lo devo a lui. E' riuscito a non farci sentire soli, è riuscito a farci sentire una famiglia, anche in 3. Ha dedicato tutto se stesso a noi, solo dopo che siamo diventati grandi ha iniziato a riprendersi un pò di tempo per se. Ha costruito un rapporto con noi da padre, da amico, nonostante fossero anni dove i rapporti con i genitori non fossero sempre amichevoli, quantomeno rispetto ad oggi. E' stato comprensivo, quando era il caso, perchè poi la rabbia ti porta facilmente fuori dal binario, inflessibile in altre circostanze. Veniva a vedere le mie partite di calcetto fino a quando avevo quasi 40 anni, il presidente onorario della squadra. Il primo tifoso di miei figli nelle loro di parie.
Quando ho costruito la mia famiglia, era lì, c'era se avevo bisogno di aiuto, con la gestione dei miei di figli. Vicino ma mai invasivo.
Hai ragione, non è facile parlare di questo argomento. Però anche se non ti conosco, a parte il seguirti su Linkedin, le tue parole mi hanno colpito e mi hanno portato a fare questo post.
Non è facile raccontarsi, ho fatto uno sforzo enorme a scrivere. Non posso neanche immaginare il tuo. Ma nel leggere il tuo post sono tornato al 1986. Si è rimescolato tutto e posso capire cosa stanno vivendo i tuoi ragazzi.
Non mollare mai e fatti guidare dal tuo istinto. Si deve sempre "tirare avanti".
Ho perso mia mamma 10 anni fa, quando di anni ne avevo 25,lo so rispetto ad un bambino di 10 si pensa siano nulla, si pensa che si abbia la struttura emotiva per riuscire a superare la cosa in maniera piu razionale, ma non è cosi! Lei era la mia spalla, il mio partner in crime, lei era tutto quello che avevo, e in 6 mesi lei non c'era più! Non riuscivo a digerire quelle parole di circostanza, non le comprendevo, e tante volte ho risposto con stizza, con rabbia, perché in questi casi è meglio non dire se devi dire frasi fatte, vuote, senza empatia! Rabbrividisco al solo pensiero di cime si sentono ora quelle tre creature, del dolore lacerante che sentono! Perché io lo so cosa sentono, quel dolore straziante mista alla rabbia. Rabbia verso la vita, rabbia verso Dio, rabbia verso la stessa mamma che ci ha lasciato così senza pensarw a come saremmo stati senza di lei! E sento il tuo dolore, lo sento sulla mia pelle, di dover continuare a vivere senza la parte che ti faceva vivere! Vi stringo forte e io sento di potervi dire "condoglianze", perché io partecipo al vostro dolore!