Ci sono le parole
Ci sono cose che ci lasciano senza fiato. Ma abbiamo bisogno di parole per andare avanti.
A un certo punto ho temuto che il telefono esplodesse. Che i messaggi e le faccine addolorate saltassero fuori dallo schermo. E che tutti quei messaggi uguali si accoppiassero tra loro come in quel gioco per bambini che dicono aiuti a stimolare la memoria.
La mattina dopo, praticamente all’alba, qualcuno mi ha chiesto a chi dovessimo dirlo.
Io penso di avere risposto “boh” o forse fatto giusto qualche nome, credo non più di tre.
Chi doveva sapere, sapeva già.
Nel giro di qualche ora però un amico lo ha detto a un altro amico, e i social hanno fatto il resto.
E il mio telefono è esploso a suon di bip, mani giunte, cuori spezzati e frasi stereotipate.
“Condoglianze”.
Una parola antica, che ho sempre odiato, che credo pochi capiscano davvero e che fa sentire morti, ancora più morti, chi la riceve.
È una parola che tuona fine. Basta. Game over, ma senza la musichetta giocosa di certi videogame degli anni ’80.
E poi c’è quella frase lì.
Che pare giusta e non sbagli mai: “non ci sono parole”.
Per capirci, in parte è vero. In parte no.
In parte ha senso.
In parte è la più grande bugia organizzata e democratica della storia.
Di fronte alla morte le parole mancano.
Specie se si tratta di una morte improvvisa, prematura come si definisce in questi casi - e anche qui delle parole che usiamo potremmo discuterne; ma questa è un’altra storia.
Cosa dici a chi si ritrova da un momento all’altro “solo”? Cosa dici a chi si ritrova “solo” e con tre bambini senza mamma?
Al funerale in chiesa si è avvicinata una signora che non avevo mai visto prima e mi ha fornito un vademecum di tutto ciò che avrei dovuto fare per i prossimi anni.
“Ora fai questo, poi questo, quando i bambini sono grandi questo… fatti forza”.
Io volevo solo mi lasciasse il braccio, poter bere un sorso d’acqua e uscire dalla chiesa per una boccata di ossigeno e una di nicotina.
Capisco sia difficile.
E capisco, persino apprezzo, che anziché dire stronzate e altre frasi fatte (lei adesso sta bene, ti guarda da lassù…) sia una buona idea non dire niente o ammettere che “non ci sono parole”.
Solo che non è vero.
Ci sono le parole
Sembra che non ci siano perché fanno male. E alla maggior parte delle persone fanno paura.
Alla maggior parte, cioè a tutti.
Come umani nonostante tanta esperienza diretta - vicina o vicinissima, lontana o lontanissima - ci fa paura parlare di morte, pensare possa capitare anche a noi, e all’improvviso. Preferiamo nasconderla da qualche parte nel cestino delle emozioni.
Quando poi salta fuori, quando “succede”, continuiamo a rimanere sbigottiti. Ma come è possibile?
Che dire? Non ci sono parole…
Lo capisco benissimo e per quanto abbia conosciuto la morte già in tenera età - per una triste coincidenza mio padre è morto quando ero bambino - e abbia sempre parlato di morte più liberamente della media delle persone, sarebbe una bugia dire di avere avuto assoluta confidenza e sentirmi a mio agio.
Ora è ovviamente diverso, è come essere stati ammessi in un club esclusivo e avere ricevuto un corso accelerato di come sia realmente questa parte di vita e di come si sta male.
Entrati nel club lo capisci: le parole ci sono.
Anche se non le trovi subito, anche se fanno male, anche se a volte si ingarbugliano.
Di sicuro ci sono le parole e ne hai bisogno.
Non è un caso che le persone a me più vicine, partendo dai miei bambini ovviamente, le abbiano trovate e le cerchino ogni giorno.
Fuori dal club sembra folle.
Dentro invece ne vogliamo parlare. Ne abbiamo bisogno.
Abbiamo bisogno di dire ad alta voce ancora il suo nome.
Di dire quanto ci manca.
Di provare a spiegarci l’un l’altro quanto è difficile.
Abbiamo bisogno di dire parolacce e dire quanto siamo incazzati.
Abbiamo bisogno di parole per provare a mettere in ordine le emozioni e trovare un senso per andare avanti.
C’è bisogno di parole. C’è bisogno eccome di parlare.
Non è che io sia più sveglio degli altri. È solo che proprio adesso mi trovo coinvolto.
Questo potrebbe anche farmi dire cazzate, sia chiaro. Ma anche se sono passati poco più di venti giorni, penso di avere capito qualcosa.
Sul “non ci sono parole”.
Sul fatto che non ne voglia parlare.
E sul fatto che invece ci sia bisogno di sforzarsi nel trovare parole e ci sia bisogno eccome di parlare.
“Non ci sono parole”.
Qui per prima cosa credo sia questione di approccio. Ancora una volta, alla vita e alla morte.
La neghiamo così tanto, l’abbiamo nascosta così tanto sotto i tappeti, i selfie, la quotidianità, la routine, gli aforismi motivazionali, da non riconoscerla neppure quando la vediamo.
Forse sono solo molto scosso, ma la maggior parte di coloro che mi si sono avvicinati, fisicamente o meno, in questi giorni, lo hanno fatto come ci si avvicinerebbe a qualcuno che è stato colpito da un fulmine.
La probabilità che succeda sono circa di circa 1:10.000. E per quanto ciò significa che il 20% del genere umano rischia prima o poi di venirne colpito, è qualcosa che “pensiamo” come evento raro, rarissimo, fuori dall’ordinario.
Ovviamente la morte non è così.
“Su una linea temporale abbastanza lunga, il tasso di sopravvivenza di tutti scende a zero”
Salta fuori in una delle tante scene magiche di Fight Club. Lo avevo scritto la settimana scorsa e anche se non piace pensarci, ciò significa che la maggior parte delle persone ci ha già fatto i conti, per i restanti sarà questione di tempo.
Sta di fatto che “non ci sono parole”, a mio avviso, non racconta solo una comprensibile difficoltà nel dire qualcosa di sensato, ma anche la mancata comprensione che il dolore, per quanto in questo momento riguardi qualcuno in particolare, fa davvero parte dell’esistenza umana.
Nel club le parole ci sono eccome. E nel club c’è davvero tanta gente
Quello che per adesso ritengo prova che il mio ragionamento funzioni, lo intravedo nel comportamento di altre persone.
Chi ci è già passato, chi pensava di averlo superato, chi magari lo sta vivendo adesso.
Ma anche chi ha quel guizzo per capire che anche se non ti è ancora capitato farci i conti in maniera diretta, forte, bastarda… beh fai anche tu parte del club.
Queste persone, le prime soprattutto ovviamente, ho potuto sperimentare in prima persona, di parlare ne hanno voglia eccome.
Provano chiaramente una naturale empatia.
In questi giorni non so dove ho letto che i “dolenti” vedono subito altri “dolenti”. Ecco, penso sia un po’ questo.
Anche qui è una questione di identità, senso di appartenenza. Ma anche quella sensazione confortevole di essere capiti e di capirsi.
Ti vedo. Ti sento. So come ti senti.
Nel mio caso sono tantissime le persone che mi hanno scritto in questi giorni. E che non si sono nascosti dietro il “non ci sono parole”. Sono andate oltre, hanno saltato a piedi uniti ogni formalità e ogni apparente senso di delicatezza.
Hanno parlato la lingua del dolore, sapendo di cosa si tratta.
La maggior parte di queste persone non erano soltanto “tristi per me”.
Aspettavano qualcuno che ne parlasse.
Perché nonostante siamo la società senza veli, quella orwelliana per eccellenza, di dolore non ne parla ancora nessuno. O troppo pochi.
E nel club, questa cosa fa male.
Perché anche se non ci si fa caso minimizza ciò che stai provando.
Sempre in questi giorni ho letto una metafora azzeccata, lucida e spietata. Diceva: “è come se hai appena subito un terremoto di magnitudo 5,5 che ti ha distrutto casa. E quelli accanto ti dicono “ma no, è stato solo un rumorino…”
C’è bisogno eccome di parlare
La settima scorsa ho raccontato la mia perdita qui su Substack. Sui social. In questo mondo social che è a proprio agio con storie di successi, fallimenti, condivisione in tempo reale di colazioni, cene, parti, amplessi…
Mi hanno scritto in tantissimi.
Alcuni fanno parte di quelli di cui parlavo prima: persone del “club”.
Altri, pur con grande sensibilità e affetto, sono rimasti “scandalizzati”, quantomeno sorpresi.
A proposito di parole, mi ha colpito come in tanti abbiano parlato di “pudore”.
Capisco bene anche questo.
Ma come sappiamo altrettanto bene: è tutto relativo.
Per anni mi sono vergognato di vendere.
Ho messo da parte ogni imbarazzo nel momento in cui vendere significava dare da mangiare ai miei figli.
In maniera diversa succede quando entri nel club. E sta succedendo a me adesso.
Perdi il “pudore”, capisci persino non sia giustificato.
Hai solo una voglia smisurata di parlarne, condividere, trovare altra gente che ti “vede, sente, capisce”.
E persino gente che magari, non avendo pudore e con il coraggio di parlare ad alta voce, puoi aiutare.
Ho fatto una breve ricerca nel web a caccia di storie simili. E ovviamente ne ho trovate tantissime.
Per la cronaca, ma non è un dettaglio da poco, quasi tutte in lingua inglese e d’oltreoceano. L’Italia su questo è parecchio “pudica”.
Esperti, psicologi, professori di latino e greco, markettari, gente completamente diversa, unita solamente dal fatto di avere incontrato il dolore.
Dall’aver barcollato.
Dalla voglia comunque di non soccombere, provare ad andare avanti, e persino trovare qualcosa di buono.
Dicono, e a volte viene messo nelle slide di questo o quel convegno, che non ha senso essere il più ricco del cimitero… e che comunque sotto terra siamo tutti uguali.
È impreciso.
Siamo tutti uguali già da subito. Solo che si rende evidente nel “dolore”.
Ed è lì che ti viene “voglia di parlare”.
Quando la struttura della tua storia vacilla e perde senso, è lì che te ne freghi dei titoli, della forma, della consuetudine, e cerchi solo di connetterti con te stessi, con gli altri, con te stesso connettendosi con gli altri.
To be continued
Sono due giorni che mi salta in testa questa frase: “to be continued”.
Mi ha sempre fatto incazzare quando da bambino concludeva le puntate di un cartone, e lo lasciava in “aria”.
Oggi mi suggerisce emozioni contrastanti.
Quella cinica, che mi sono detto persino di fronte ai medici che dicevano “è finita”, è che comunque bisogna andare avanti. Tanto gli altri non si fermeranno. Non lo faranno le sfide, i problemi, le necessità.
Quella positiva, che ancora non ho il coraggio di definire “speranza”, è che c’è ancora tanto là fuori per cui lottare e per cui vale la pena soffrire.
A volte credo più alla prima storia, altre volte ho la forza di agganciarmi alla seconda.
Comunque la mettiamo, di sicuro so che ho bisogno di “parole”.
Provare a trovare le parole.
Anche su un tema così pauroso come la morte, e la vita che va avanti.
Perché non è vero che “non ci sono le parole”.
Ci sono eccome le parole…
Servono eccome le parole…
Servono ai miei bambini.
Servono a me.
E penso servano a tante persone che soffrono in silenzio.
E si sentono dire “non ci sono parole…”
(…dove si parla del non farmi sentire un idiota, e fare qualcosa in più…)
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Non ci sono parole, ed hai ragione, si rimane senza fiato. Ma ricordo bene le parole di mio padre in quel periodo, quando qualcuno gli chiedeva come va. Cazzo come volevi che andasse. Ma lui diceva sempre "si tira avanti". E questo nel tempo è diventato il mio mantra, un pò tipo "non mollare mai". E' questo che ti fa andare avanti, perchè la vita prosegue per chi rimane. E bisogna fare il possibile per farla diventare la migliore possibile, nonostante tutto.
Mi ricordo quell'anno, purtroppo ancora molto bene, era il 1986, avevo 10 anni. Mia sorella 16.
Forse è un mix di immagini del periodo, ma ricordo di aver visto l'incidente dello Space Shuttle Challenger in camera dei miei, dove a letto c'era mamma. In un televisore portatile rosso, in bianco e nero. Di giorno, perchè stava già male. Poi a marzo, il 24 se ne è andata. Aveva 41 anni. I pochi ricordi sono anche loro in bianco e nero. Perchè la memoria di un bambino, contrariamente ai grandi, riesce ad essere selettiva. Certo, ricordo benissimo quando mi è stato detto che non c'era più, le persone con cui ero, il funerale, ma poi il resto si fa ovattato, come dopo che piangi molto.
Ma la vita di tutti i giorni, appena riprende dopo la momentanea sospensione, aiuta non a pensarci, a mettere da parte i dolorosi ricordi, quello che sarebbe potuto essere la normalità. E si riparte con una nuova normalità.
Per te, per la tua vita, intendo come Davide, come uomo, non sono in grado di darti un aiuto, non ho nessuna parola che ti possa dare uno spunto da cui ripartire.
Per te invece come padre ti posso raccontare come è stato il mio di babbo. Se sono chi sono lo devo a lui. E' riuscito a non farci sentire soli, è riuscito a farci sentire una famiglia, anche in 3. Ha dedicato tutto se stesso a noi, solo dopo che siamo diventati grandi ha iniziato a riprendersi un pò di tempo per se. Ha costruito un rapporto con noi da padre, da amico, nonostante fossero anni dove i rapporti con i genitori non fossero sempre amichevoli, quantomeno rispetto ad oggi. E' stato comprensivo, quando era il caso, perchè poi la rabbia ti porta facilmente fuori dal binario, inflessibile in altre circostanze. Veniva a vedere le mie partite di calcetto fino a quando avevo quasi 40 anni, il presidente onorario della squadra. Il primo tifoso di miei figli nelle loro di parie.
Quando ho costruito la mia famiglia, era lì, c'era se avevo bisogno di aiuto, con la gestione dei miei di figli. Vicino ma mai invasivo.
Hai ragione, non è facile parlare di questo argomento. Però anche se non ti conosco, a parte il seguirti su Linkedin, le tue parole mi hanno colpito e mi hanno portato a fare questo post.
Non è facile raccontarsi, ho fatto uno sforzo enorme a scrivere. Non posso neanche immaginare il tuo. Ma nel leggere il tuo post sono tornato al 1986. Si è rimescolato tutto e posso capire cosa stanno vivendo i tuoi ragazzi.
Non mollare mai e fatti guidare dal tuo istinto. Si deve sempre "tirare avanti".
Ho perso mia mamma 10 anni fa, quando di anni ne avevo 25,lo so rispetto ad un bambino di 10 si pensa siano nulla, si pensa che si abbia la struttura emotiva per riuscire a superare la cosa in maniera piu razionale, ma non è cosi! Lei era la mia spalla, il mio partner in crime, lei era tutto quello che avevo, e in 6 mesi lei non c'era più! Non riuscivo a digerire quelle parole di circostanza, non le comprendevo, e tante volte ho risposto con stizza, con rabbia, perché in questi casi è meglio non dire se devi dire frasi fatte, vuote, senza empatia! Rabbrividisco al solo pensiero di cime si sentono ora quelle tre creature, del dolore lacerante che sentono! Perché io lo so cosa sentono, quel dolore straziante mista alla rabbia. Rabbia verso la vita, rabbia verso Dio, rabbia verso la stessa mamma che ci ha lasciato così senza pensarw a come saremmo stati senza di lei! E sento il tuo dolore, lo sento sulla mia pelle, di dover continuare a vivere senza la parte che ti faceva vivere! Vi stringo forte e io sento di potervi dire "condoglianze", perché io partecipo al vostro dolore!