"Che c'è, vuoi regalare un'altra vita anche a me?"
Di gente che di mestiere svegliava la gente, e di me che sveglio i bambini. Di persone e di storie. Di seconde opportunità, e di chi le cerca.
Un papà, tre figli, mamma non c'è più. La vita continua, dicono. Il mondo non si ferma. “Ok. Ci proviamo”. Questa newsletter racconta storie che molti preferiscono tacere. Cose che sembrano indescrivibili e per le quali si dice “non ci sono parole”. Ma ci sono. E parlano di respiri mozzati, di quando ti manca il respiro. Di vita e morte, lutto e amore. Di esseri umani. Non eroi, non invincibili. Che provano ad andare avanti. Insieme.
Che fai nella vita?
Sveglio la gente.
Tempo fa un tizio mi raccontò una storia. Pensai se la fosse inventata, ma è vera. Una volta c'era chi di mestiere svegliava la gente: gli svegliatori.
Un lavoro vero e proprio, se lo passavano da padre in figlio, da madre in figlia.
Iniziò più o meno nell'800. Quando le sveglie non c'erano. Non si erano ancora diffuse, o erano troppo costose e poco affidabili. Quando le persone smisero di seguire il sole e il canto del gallo per alzarsi dal letto; con le prime fabbriche e i turni da non mancare.
Alcuni iniziarono a non dormire la notte e la mattina andavano casa per casa a svegliare la gente. Erano gli svegliatori, knocker-up in inglese, bussavano porta per porta.
Per svegliare quelli ai piani alti invece - questa cosa è divertentissima - usavano una canna di bambù per picchiettare sulle finestre. Alcuni addirittura usavano cerbottane, e sparavano piselli sui vetri.
Camminavano veloci, tanta gente da svegliare. Se ti svegliavi bene, altrimenti il loro lo avevano fatto, e pagavi lo stesso.
Che fai nella vita?
Sveglio i ragazzi.
Da un po' di giorni, tredici per l’esattezza, da quando è iniziata la scuola, anche se mi sembra sia già passato un secolo, sveglio la gente anche io.
Ho solo tre clienti, ma belli tosti.
Cami, 4 anni e mezzo, quasi cinque come ama dire, Giorgia, 12 anni orgogliosamente rivendicati, Niki 14 anni fatti da poco, cosa che ancora non riesco ad accettare.
A differenza dei miei colleghi del passato non vengo pagato. E non solo devo chiamarli ma svegliarli davvero, e devo farlo facendo attenzione a farlo nel modo più delicato possibile, evitando che si alzino incazzati, che poi iniziano a passarsi il nervosismo come una palla, e poi impazzisco io, ed è un casino.
La mattina va così: Alexa sveglia me. Che sveglio loro.
La sera prima le do una manciata di orari.
"Alexa, metti una sveglia alle 5."
"La tua sveglia per le 5 del mattino è impostata"
"Alexa, metti una sveglia alle 5 e 10"
"La tua sveglia per le 5 e 10 del mattino è impostata"
"Alexa, metti una sveglia alle 5 e 15"
…
E la mattina, non la prima, non la seconda, solitamente alla terza, a volte alla quarta, più o meno tra le 5:15 e le 5:30, mi alzo. E si inizia.
Casa nostra è su tre piani; mi hanno fatto notare che ne parlo sempre, della casa, ma non l'ho raccontata mai.
Penso di non averne voglia neanche questa volta, però per capirci: viviamo su un piano, dormiamo su tre.
Giorgina al primo piano, io e Cami sopra, Niki giù.
Svegliare Niki dunque è la cosa più difficile, anche per motivi logistici.
Devo usare una voce abbastanza forte da svegliarlo ma da non farlo incazzare. Abbastanza alta da interrompere i suoi sogni (sicuro uno dei suoi videogiochi assurdi o una mattina dove nessuno dice "Niki Niki" per svegliarlo e andare a scuola), ma non troppo da svegliare anche Cami che ancora dorme. E in questa fase deve rimanere a dormire, perché se si sveglia adesso è impossibile poi svegliare i grandi in modo delicato.
"Niki, Niki."
Le prime parole del mattino. Che non escono bene, non escono subito, e le devo cercare. E poi c'è che il mattino ti graffia sempre un po' la gola, specie se sei un idiota che fuma quanto me.
Giorgia è facile da svegliare. Dorme a una porta di distanza da dove la mattina prendo il caffè. Le piace andare a scuola e basta sempre poco.
"Amore, dai alziamoci."
Basta questo. A volte la trovo già in piedi a scegliere i vestiti. I suoi, e quelli per Cami.
Menomale. Posso dedicarmi al lavoro più difficile, suo fratello.
"Niki, dai papà. Dai che ce la fai. Fette biscottate e Nutella."
Con lui, che ha preso da me e sua mamma l'arte di non fare subito quello che puoi fare dopo, ci vuole tempo. E c'è bisogno sempre di una spinta. "Nutella" funziona bene. "Venerdì, dai un altro giorno e la settimana è finita”, è un successo assicurato.
“ Oh Uff...", un grugnito che sale a fatica dalle scale.
Ok è sveglio, passiamo a Cami.
Svegliare Cami non è né facile né difficile, dipende. Ogni giorno è una lotteria di emozioni ma è sempre fantastico. Alla fine è sempre una risata, in questo è davvero la sua mamma in miniatura.
Che fai nella vita?
Sussurro alla bimba.
"Piccola, ci svegliamo?"
Sussurrato. Più che voce qui si tratta di frequenze, una modulazione che solo lei può sentire. E che sente solo quando si sente pronta.
"Ci alziamo?"
"Cucciola?"
Continuo su bassa frequenza. Non lo faccio apposta, o perché abbia letto chissà quale manuale. Parlare a voce bassa viene naturale con lei, mentre la vedi muoversi piano tra le coperte. A voce bassissima. È come se cercassi di intonare le parole al respiro di quel corpicino che inizia a svegliarsi. Come quando entri in chiesa, e anche se non c'è anima viva e non c'è la messa, parli piano.
"Vita?"
Sono tutte domande con lei. Come dicevo, bisogna capire quando è pronta, non puoi ordinare nulla. Perché è piccola. E perché a un batuffolo tenero abbracciato ad un orsetto e a una coperta nessuno riuscirebbe a ordinare nulla.
"Vuoi dormire tutto il giorno?"
"Sì," e ride.
Il segnale che ci siamo. Adesso sì che posso aumentare il tono della voce. Mi avvicino al cuscino per farmi sentire di più. E perché mi fa impazzire quell'odore che fa di shampoo alla vaniglia, e di buono.
"Dai piccola, andiamo a fare colazione. C'è la Nutella."
Neanche lei resiste alla Nutella.
"Dobbiamo andare all'asilo?"
"Sì amore, devi andare a giocare."
"Ma prima facciamo una passeggiata?"
"Certo amore, dai così arriviamo presto."
"Ma giochiamo anche con le pigne?"
"Sì vita, dai che si fa tardi."
"Ma appena esco dall'asilo andiamo al parco?"
"Sì amore, dai."
"Ma..."
"E che cazzo Cami, alziamoci."
"In braccio." Il suo è un ordine.
Cami in pancia deve aver seguito un qualche corso di negoziazione. Perché altrimenti non si spiega come riesca a estorcere sempre ciò che vuole. Ma soprattutto perché sa quando hai tirato troppo e non puoi ottenere di più.
"In braccio."
"Ma pensi che sono un ascensore?"
"Sì papino."
E ride. E finalmente giù per la colazione.
Che fai nella vita?
Accompagno i ragazzi a scuola.
Rumore metallico delle cerniere degli zaini che si aprono e chiudono. Ci siamo.
"Cani sistemati?", "Telefoni presi?", "Telefoni carichi?", "Gas chiuso?"
Andiamo. Alle 7.15 se tutto fila liscio si esce da casa.
Mani sul volante. E ti rendi conto che l’estate è finita, altro che equinozi. Sino a qualche giorno fa il volante scottava che ti veniva voglia di scendere. Ora è freddo, che un po’ è una bella sensazione e un po’, molto, vorresti tornare in casa e infilarti sotto una pila di coperte.
"Ci siamo tutti?" sempre bene controllare.
E finalmente si parte davvero. Tappa uno, tappa due, tappa tre. Alle 8:30 posso dire di aver finito il mio lavoro.
Il "turno" riprende alle 13, e nel frattempo sono comunque reperibile. Dopo aver fatto due conti, ho capito che tornare a casa non conviene: troppo tempo, troppo sbattimento, troppi soldi. Quindi rimango in giro. Ma dove?
Il centro commerciale mi è sembrata subito la soluzione ideale: parcheggio facile, ingresso gratuito, caffè e sigarette a portata di mano, un riparo se piove, e tavoli per appoggiare un pc.
Dalla scuola di Niki, l'ultimo ad entrare, al centro commerciale ci sono 4 km. Un tragitto veloce, senza traffico e con una strada abbastanza semplice. Eppure, da ansioso cronico, ogni mattina chiedo a Google come arrivarci.
"Quando arrivi, il centro commerciale potrebbe essere ancora chiuso."
"Lo so cazzo, lo so."
Stupida voce artificiale, di nuovo.
I negozi aprono alle 9, ma non sono qui per fare shopping. Cancelli e bar aprono prima.
Così, ogni mattina ormai, intorno alle 8:40 sono qui. Parcheggio con calma, una sigaretta all'aria aperta e qualche passo per sgranchirmi le gambe.
Cinque minuti ed entriamo.
Io e i ragazzi del KFC.
Due ragazzi sulla ventina, che sembrano usciti dallo stesso stampo. Identica pettinatura, stessa altezza, con uniformi che li rendono praticamente indistinguibili. Due gocce d'acqua in divisa aziendale.
I primi giorni mi lanciavano occhiate sospettose.
I loro sguardi sembravano dire: "Ancora tu?". Ma a volte, vedendomi, preferivano fare finta di nulla e guardare da un’altra parte. Come quando ti ritrovi nell'ascensore del condominio con uno sconosciuto, e non sai se guardarlo o fissare il vuoto. O dire qualcosa.
Ormai sono giorni che entriamo insieme. Si sono abituati.
"Prego," dicono i loro sguardi senza pronunciare parola. Rispondo con un cenno e una smorfia. Ci mancherebbe, entrate prima voi.
Entriamo. L'aria condizionata che ti colpisce in faccia. Uno schiaffo all'improvviso dopo il tepore della macchina e il calore della sigaretta appena fumata. Il suono dei passi che echeggia nel vuoto dei corridoi deserti. Una sinfonia surreale, come una colonna sonora che ti introduce a un mondo parallelo dove il tempo è davvero relativo, sospeso.
Anche oggi sono qui.
Scrivo da qui.
In compagnia dei gemelli del KFC. Che oggi mi hanno persino detto qualcosa.
"Ciao."
"Ciao."
Uno dei due ha aggiunto qualcos'altro appena arrivati al piano, ma non ho afferrato. Ho risposto d'istinto: "anche a voi". Per non rischiare. Metti che mi abbiano detto "brutto stronzo muori"? Beh, in tal caso ho ricambiato. "Tiè".
Ad ogni modo è durato un attimo, e poi ciascuno per la sua strada. Che porta al terzo piano. Loro al lavoro, io al mio ufficio improvvisato: tavoli alti dotati di prese per ricaricare computer e smartphone. A quest'ora sono sempre vuoti. Il primo giorno ne ho scelto uno, e da allora è diventato il mio. Di fronte c'è una sala giochi, buttata lì, in mezzo senza un motivo, con musica anni '90 a tutto volume anche se non c'è anima viva.
Mi accomodo al solito posto, su un seggiolone di legno scadente, freddo e duro. Un chiaro promemoria che sono qui, in giro, e non a casa.
Apro il pc: controllo mail, lista cose da fare. Ma non ho voglia. Apro un documento su Drive, lo chiudo. Ne apro un altro, inizio a scrivere. Cancello. Ne apro un altro ancora.
Se non finisce anche questo nel cestino, quello che stai leggendo ora sono le stesse parole che sto scrivendo in questo momento. Magari mentre sei su quel comodo divano di casa. O hai appena iniziato una giornata in ufficio, e anche tu non hai molta voglia.
Che fai nella vita?
Pollo e patatine, pollo e patatine.
Anche i gemelli iniziano a fare cose.
Uno sistema la cassa, l'altro controlla i vassoi. Spostano sacchi di patatine surgelate, passano pezze sui tavoli, raccolgono carte da terra.
Cazzo, si muovono anche uguali. Da paura. Una danza di lavoro sincronizzata. È ipnotico, o forse sono io che come loro non ho chissà quale voglia di lavorare.
Pollo e patatine, pollo e patatine.
Ecco il resto, signore.
Immagino quello che li aspetta. Io stacco intorno alle 13 ma mi sa che loro andranno avanti così fino a sera. Che vita del cazzo, poverini.
Ma magari loro dicono lo stesso di me. Mi viene da pensare a quella frase che mi ha detto il tipo sulle scale e non ho capito. Magari non erano parolacce. Magari era "ti sono vicino fratello" e avrei dovuto rispondere "anche io" non "anche a voi".
Boh. Chi lo sa. Non ci sono opuscoli e manuali di istruzioni. Non uno straccio di trama. O un Bignami sulle cose base da sapere.
Incroci una persona, magari ci lavori persino insieme, accanto, e non sai mai niente. Mai abbastanza. Vai a tentoni, a volte la pesti. A volte pestano te.
Pensi che ti abbia detto "vaffanculo" quando era "buona giornata". Pensi che ti prenda in giro, quando vorrebbe essere al posto tuo. O il contrario.
Ci sono storie che non vengono raccontate. E storie che non vogliono essere ascoltate. Ci passano storie accanto ogni giorno. Ci passiamo accanto ogni giorno. Siamo storie che camminano, si potrebbe dire così.
Che fai nella vita?
Qual è la tua storia?
Ci sto riflettendo in questi giorni, da quando è iniziata la scuola e il centro commerciale è diventato la mia seconda casa. Mi sento un Tom Hanks moderno, come in "The Terminal", già presente all'apertura, quasi ci avessi dormito dentro. Mi siedo col pc a fare chissà cosa, poi, annoiato, inizio a vagare tra i negozi.
La gente vede un tizio che si avvicina alle vetrine senza mai entrare.
Passeggio con una busta in cartone marchiata Adidas, come se avessi già fatto i miei acquisti. Ma non è trasparente. Non possono vedere che dentro c'è un Mac, un caricabatterie, un mouse Magic e salviettine imbevute buone per ogni evenienza. E non possono mica sapere che da giorni, ogni volta che imbusto il pc prima di partire, penso a quella valigetta in pelle, molto più comoda ed elegante. Che però non so proprio dove sia finita.
Lo sapeva lei. Ma lei non c'è più.
Ma mica lo sanno. Mica lo possono sapere. Vedono solo un tizio con una busta di cartone che fa su e giù. Che si annoia, esce a fumare, rientra, si rimette al pc. E poi daccapo.
D'altra parte, anche io vedo cose, vedo persone.
Ci sono ad esempio le presentatrici Avon.
Le senti prima di vederle. Odore di cornetti, profumo e puzza di Iqos. Lo riconosco quell'odore, perché le fumava anche lei.
Tailleur datati, indossati a forza. Giacche strette che non contengono le forme. Vestiti troppo corti che rivelano l'età.
Sognavano questo da bambine? Sono lì di passaggio? In pausa da un sogno? Oppure i sogni li hanno mollati e si sono rassegnate a fermare la gente e provare a vendere qualcosa?
E quelli del Folletto?
Il centro commerciale è il loro punto di ritrovo. Fanno colazione e riunione prima di disperdersi verso chissà quali paesi.
Hanno l'aria stanca, si vede. Già di mattina presto sembrano esausti. Eppure li riconosci dal chiasso che producono.
Ridono e parlano a voce altissima fin dalle 9 del mattino. Persino il tintinnio dei loro cucchiaini nel caffè sembra più rumoroso del normale. Si lanciano entusiasmo e in bocca al lupo come a crederci davvero.
“Che vita fai uomo del folletto?"
Boh. Magari qualcuno di loro in pausa pranzo, legge proprio questa newsletter. Chi lo sa.
Ci sono storie che non vengono raccontate. E storie che non vogliono essere ascoltate. Ci passano storie accanto ogni giorno. Ci passiamo accanto ogni giorno. Siamo storie che camminano, si potrebbe dire così.
E tu, che vita fai?
Do seconde possibilità.
E tu?
Cerco seconde possibilità.
Ultima cosa della mattinata al centro commerciale. Voglio raccontare questa. Poi la smetto, giuro. Chiudo il pc, torno sulla jeep e ti lascio alla tua vita.
Sono fuori, a fumare una sigaretta. C'è un sole così alto che sembrano quelle giornate al mare, in spiaggia, quando inizi a maledirti per aver pensato di potercela fare senza ciabatte.
Non si respira. Prima boccata di fumo e già rimpiango il fresco artificiale che c'era dentro.
Chi non fuma questo potrebbe non capirlo, ma non tutte le sigarette sono uguali. Dipende dai momenti, e dai luoghi. Quando fa così caldo ad esempio non hanno affatto un buon sapore. Sono più amare, e ti fanno sentire anche più stupido del solito: "perché cazzo aspiri questa roba che sa di merda?"
Cerco ombra ma non si trova. Il terzo piano ha un'uscita sul parcheggio e chi ha progettato la struttura ha creduto sia esclusivamente un punto di passaggio. L'asfalto riflette il calore, creando un'illusione tremolante nell'aria. A volte le onde le vedi davvero.
Ci sono giusto due panchine all'ingresso. Messe lì. Come a dire "eccole ma tanto non servono". Si vede che sono scomode prima ancora che ti siedi. Non promettono niente, annunciano ciò che sarà. Come certe vite. “Il metallo caldo ti brucerà sotto i vestiti, gli schienali ti faranno male” sembra precisino subito.
Però mi siedo. Almeno non mi becco il sole in pieno.
E vedo un gattino che mi fissa da lontano e viene proprio verso di me.
"Miao, miao."
Non è un’onomatopea. Fa proprio così. Mi vien da ridere. Sono un tipo da cani, non sono mai stato a contatto con i gatti dopotutto. Cioè fan davvero così. "Miao" non è un verso che ricorda il loro; è il loro.
Si blocca a qualche centimetro dalle mie scarpe e continua a fissarmi.
Penso che vorrei dargli qualcosa da mangiare, ma non ho nulla. Potrei offrigli una sigaretta ma non penso sia così stupido.
E un a tratto mi viene in mente Catwoman, quel film lì.
Il protagonista, gatto, era Midnight. Non era nero ma a me ricorda proprio quello che ho davanti. Aveva la capacità di capire le persone solo con lo sguardo. Nel film capisce che la protagonista è una donna buona, che sta per morire, e quando muore le fa il dono di riportarla in vita.
Continua a fissarmi. E mi viene da dirglielo senza troppi giri di parole.
“Che fai nella vita Midnight?
"Che c'è Midnight, vuoi regalare un'altra vita anche a me?"
Ma lui non dice niente. Non risponde. Fa "Miao", e se ne va.
Vado via anch'io. Direzione scuole, casa, pranzo, piatti da lavare, bollette da pagare, soldi da trovare per le bollette da pagare. Domani è un altro giorno. Ci riproveremo domani.
EXTRA (Che cosa hai letto e come fare qualcosa in più)
Un papà, tre figli, mamma non c'è più. La vita continua, dicono. Il mondo non si ferma. “Ok. Ci proviamo”. Questa newsletter racconta storie che molti preferiscono tacere. Cose che sembrano indescrivibili e per le quali si dice “non ci sono parole”. Ma ci sono. E parlano di respiri mozzati, di quando ti manca il respiro. Di vita e morte, lutto e amore. Di esseri umani. Non eroi, non invincibili. Che provano ad andare avanti. Insieme.
Io sono Davide, e se hai letto sin qui “Grazie”.
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