Una figlia a quarant'anni
Un viaggio triste. Ma anche bellissimo. (E la paura e stupidità di non farlo quando tutto va bene).
Ricordo quando Tilli decise che era il momento. Di nuovo. Lei voleva figli, io nicchiavo. Ma a un passo dai suoi quarant'anni, l'idea tornò prepotente. Stavolta era diverso, diceva. Più stabili noi, una casa nuova, grande, finalmente nostra. Niente più conti della benzina per andare dal ginecologo, niente più spiccioli cercati per un ciuccio. Una figlia "comoda", quasi. Su un'auto decente, senza l'ansia di restare a piedi. Sarebbe stata tutta mamma, la cosa che amava di più fare.
Bello, sulla carta. Peccato che la vita se ne fotta, della carta.
Non parlo ancora dei piani andati a puttane dopo. Parlo della realtà di ricominciare da capo a quarant'anni, con due figli già grandi. Svegliarsi la notte con un fagotto che urla come se il mondo stesse finendo, e tu devi capire perché, subito, e risolvere. Roba già vista, già fatta. Ma il tempo cambia le prospettive, e la fatica.
Camilla, nata scandalosamente in anticipo, si attaccò a sua madre come colla. Non si staccava mai. Letteralmente. Tilli andava in bagno con lei in braccio, nel cuore della notte. Ogni movimento, un fagottino appeso. Mi guardava, sfinita: "Oh... mi aiuti?". E io aiutavo, certo. Ma fino a un certo punto. C'era un legame simbiotico, quasi impossibile da spezzare. A un certo punto, credo di aver semplicemente smesso di provarci davvero.
Con me Cami ci stava, ovvio. Ma erano frammenti. La sera, soprattutto. Quando mi rilassavo, diventavo il padre giocoso che lancia i figli per aria sul lettone, quello che li fa ridere fino a farli diventare paonazzi e troppo eccitati per dormire. Il tipo di gioco che fa imbestialire le madri. E Tilli mi fulminava con lo sguardo. "Ora la fai addormentare tu." Io giocavo la carta dello stronzo: "L'hai voluta tu, la figlia a quarant'anni." Uno sguardo cattivo, che durava poco. Giusto il tempo che Cami si calmasse. Poi, a voce bassissima: "Stronzo." E ridevamo piano, nel buio. Domani sarebbe stato un altro giorno uguale.
Altre volte rincaravo la dose, buttandola sul razionale del cazzo: "Quando avrò io un figlio a quarant'anni, giuro che lo terrò io senza fiatare." Lei, che amava essere mamma più di ogni altra cosa, ribatteva seria, pur sapendo che scherzavo: "Un altro figlio? Scordatelo. Non con me, almeno."
Poi arrivò il "momento asilo". Secondo me troppo presto. Secondo lei no, o forse era solo sfinita. La mattina vedevo quella creaturina dormire beata nel lettone, un angelo biondo con un'aura di pace quasi irreale. "Dai, lasciala dormire..." sussurravo io. Lei fingeva di non sentire. Iniziava il rituale del risveglio: carezze, sussurri. "Amoreee..." Cami apriva gli occhi. Vestizione, colazione a forza, e via verso l'asilo. E io, di colpo, mi sentivo solo in quella casa enorme. La mattina dopo ci riprovavo: "Dai, falla dormire." A volte vincevo io, forse per sfinimento suo.
Altre volte, il mio piano falliva miseramente. Appena Tilli chiudeva la portiera dell'auto, l'angelo beato si trasformava. Occhi sbarrati, urla. "Mammaaaa, mammaaa!" Un brivido ogni volta. Io con 'sto fagotto urlante in braccio, giù per le scale di corsa. "Tiiii... Tiiiiii!" Un grido d'aiuto disperato verso il cancello già chiuso. A volte non sentiva davvero. Altre volte, ne sono certo, faceva finta. O rispondeva sfacciata: "Resisti, torno subito..." Quei minuti erano eterni. Cami che si lamentava, chiamando mamma. E io che pensavo a come, solo poche ore prima, facevamo l'aereo sul letto e lei dichiarava solennemente: "Mamma bleah, papà wow."
Finalmente il cancello si apriva, i cani facevano festa. Mamma tornava. Io ero lì, come un corriere Amazon con un pacco urgente e rumoroso. Consegna lampo tra le sue braccia. "Esagerato..." diceva lei. E io, puntuale: "Quando avrò io un figlio a quarant'anni..."
Da quel giorno, Cami non ha più chiamato "Mamma". Mai più. È una cosa che ancora oggi mi toglie il fiato. Non credo al soprannaturale, anche se a volte la tentazione è forte. Credo però nelle risorse nascoste degli esseri umani, specialmente dei bambini. Sembrano piccoli e indifesi, e lo sono. Ma sono anche rocce. Più forti di quanto immagini, più forti di te.
Quando tornai a casa quella notte, il cuore in pezzi, la notizia impossibile da dare, i ragazzi dormivano tutti nel lettone, Cami affidata ai fratelli maggiori nell'emergenza. Svegliai i grandi. "Mamma non c'è più." Cami dormiva. Non poteva sentire, non poteva sapere. Eppure, la mattina dopo, dal piano di sopra arrivò un urlo che non avevo mai sentito prima. Disperato, diverso. "Papi..."
Da allora è così. Ogni mattina, ogni sera, ogni momento difficile. Anche con la febbre alta, quando i bambini entrano in quella terra di nessuno tra sonno e veglia, tra incubi e richieste confuse. "Papi." Di "Mamma", invece, ha iniziato subito a parlare. Fa domande, ascolta, cerca foto e video sul telefono. Sa che c'era, sa che non c'è più. Sa che era una brava mamma. Sa che ora ha solo "Papi". Ha riorganizzato il suo mondo con una lucidità disarmante.
A me c'è voluto di più. Per mesi, ogni "Papi" risuonava nella mia testa come: "Cazzo, ci sono solo io". O peggio: "Cazzo, chiama me ma vorrebbe lei".
Qualche settimana dopo, mi convinsero a vedere una psicologa. La prima cosa che tirai fuori fu questa difficoltà. Il "Papi" costante, l'essere rimasto l'unico genitore. E la sensazione che, in una situazione di merda, forse sarebbe stato "meglio" se a mancare fosse stato il padre. Lei mi spiegò che il dolore è dolore, ma che nel mio caso, quando manca la madre, il trauma è più visibile, più quotidiano. Perché di solito – non è giusto, ma è così – è la madre a fare quasi tutto. Il padre, anche se presente, è spesso un co-protagonista. Quando lei sparisce, cambia proprio il film. Non è una svolta drammatica nella stessa trama. È un altro genere. Mi convinse. Aveva ragione.
"Ci pensa Papi". Questa frase è diventata un mantra involontario. Ricordo il momento in cui capii davvero cosa significava. Poche ore dopo quella notte. Cami si sveglia, chiama "Papi". Salgo le scale come se andassi al patibolo. La prendo, la porto giù. Bisogna cambiarla. E io, nonostante tre figli, un pannolino non l'avevo mai cambiato. Panico. "E ora?" Lì, in quel momento banale e terribile, capii di essere solo. Catapultato in un'altra vita. Lacrime, rabbia, domande. Ma la realtà era quella.
Avanti veloce. Quasi due anni dopo. Cami nel bagnetto. Cami al parco. Cami e i capricci per mangiare. Cami e i tentativi per l'asilo (falliti, per ora). Cami con la febbre. Cami dal pediatra. Cami e le storie della buonanotte (quelle raccontate e quelle inventate perché non vuole dormire). Cami e la colazione, i cartoni, i giochi sparsi ovunque mentre dovrei lavorare. Una ricerca continua di equilibrio dentro la tempesta. Trovare il ritmo.
E in mezzo a tutta questa fatica, emerge una cosa nuova: è incredibilmente bello. Certo, non passa giorno senza pensare che sia ingiusto godermi questa meraviglia da solo. Senza pensare a lei, a quanto sarebbe stato bello vederla crescere con sua madre. Ma questo viaggio, per quanto non scelto, per quanto difficile, è potente. Nessuno dovrebbe provarlo così, ma c'è una strana magia nel crescere una figlia da solo, da padre. Non sai fare un sacco di cose, e la tua compagna di viaggio ne sa ancora meno. Ma si impara insieme. Si prova, si sbaglia, si ride.
C'è una scena ricorrente: Cami che lotta con un vestitino. Cazzo, ma chi li disegna? Quando mi chiama, non è più una richiesta fiduciosa. È un invito: "Papi, vieni qui, proviamoci insieme." E ci proviamo. "Papi, forse questo va dietro?" "Papi, sicuro che si mette così?" Boh. Chi lo sa. Proviamo. È la metafora perfetta di questi due anni. A volte riusciamo, altre no. E chissenefrega. Andiamo avanti.
La mia figlia dei quarant'anni mi ha insegnato questo: "proviamoci".
Poi c'è il capitolo "genitore politicamente scorretto". Si dice che non esistano figli preferiti. Balle. Almeno qui. "La preferita è Cami," dico ai grandi, senza pietà. Loro lo sanno, ridono. Sanno che non è vero fino in fondo, ma capiscono il senso. "Nessuno tocchi Cami." E lei se ne approfitta, ovvio. A ogni disputa per l'ultima caramella o il telecomando, si fa avanti: "La preferita sono io!". I fratelli la proteggono. Sono più che fratelli, ormai. Sono una tribù. Cami è la loro sorellina, ma anche la loro eredità più pesante e preziosa. Finisce quasi sempre a ridere tutti insieme, mentre lei si gode l'ennesimo privilegio. È la più piccola. Ed è quella che mamma ha avuto per troppo poco tempo.
Poi c'è l'universo parallelo delle "chat delle mamme". Ne ho tre, ormai. Un flusso costante di "Ciao mamme, che ne pensate di...?" o "Ragazze, secondo voi...". Io non rispondo quasi mai. Osservo, mi sento un intruso. Un papà solo in un mondo di mamme. Situazione non rara, ma atipica. Difficile farci l'abitudine, soprattutto per gli altri. Ci sono voluti quasi due anni per essere "accettato", per poter prendere i figli altrui senza scatenare interrogatori. Qualche settimana fa, prendendo un amichetto di Nicolò, il padre mi fa: "Ciao, grazie. Poi senti mia moglie per il rientro." Stavo per rispondere "No problem, man...", ho optato per un più rassicurante "Certo, caro...".
Tempo fa, un amico venne a trovarmi, da solo con il figlio di 5 anni perché la moglie era via per lavoro. Arrivò distrutto. "Non puoi capire... mi sta facendo impazzire," mi disse, mentre il bambino piagnucolava per fame e iniziava una trattativa estenuante su cosa mangiare. Gli passai una birra, lo spedii sul divano. "Ci penso io." Dopo un sorso, venne a scusarsi. "Scusa," disse. Ovvio, dire "non puoi capire" a me non era stato il massimo del tatto. Ma capii. Eccome se capivo. Capisco la fatica estemporanea, quella che dura un weekend. Ma non è la stessa cosa.
Riflettendoci ora, a quasi quarant'anni suonati per me, mi rendo conto di cosa parlo davvero qui, su questa newsletter. Non è solo lutto, non è solo paternità single. È mortalità. È vita. È il rendersi conto, spesso troppo tardi, di cosa conta davvero. Di quanto tempo sprechiamo inseguendo stronzate o seguendo copioni scritti da altri. Mi sono sempre considerato un buon padre, presente, coinvolto. Ma ero un co-protagonista. Colpa mia, certo, ma anche di una cultura che ti assolve se "stai lavorando" e dà per scontato che certe cose spettino alla madre.
Solo ora, nel peggiore dei modi, capisco lo spreco. Capisco quanto "vivere" un figlio, non solo accudirlo, sia una benedizione, se lo scegli.
La sera, dopo cena, ne parliamo con i ragazzi. La mia tribù di dodicenni e quattordicenni, sarcastici e brutalmente onesti. Mi prendono in giro: "Cami è viziata!", "Con noi non lo facevi!". Hanno ragione. Perché prima c'era lei. La scusa perfetta. La credenza folle.
Il rimpianto è questo: potevo essere più presente, più protagonista, anche prima. Potevo sbattermene di più degli stereotipi. Il sollievo è che ci sto provando adesso. Che è fottutamente difficile, ma anche fottutamente bello.
E quasi due anni dopo, se potessi dirle una cosa sola, credo sarebbe questa, detta con un mezzo sorriso, tra l'orgoglio e l'esaurimento: "Amore, guarda cazzo quanto sono bravo..." Lei probabilmente risponderebbe: "Esagerato." E forse avrebbe ragione.
Non solo sei un bravo scrittore,ma soprattutto un bravo padre! Italia sarebbe, è, orgogliosa di te senza alcun dubbio!!! Quanto mi manca…… un abbraccio grande a tutta la tribù ❣️
Ciao Davide come o già avuto modo di dirti non solo sei un magnifico scrittore...forse è raccontando la realtà la vita veramente vissuta che arrivi a toccare tutte le corde del mio cuore sono sicurissima che Italia non abbia mai dubitato della tua capacità di essere un ottimo padre ma neanche io e forse in tanti altri ho mai avuto dubbi! Sei fantastico come del resto è tutta la tua splendida famiglia!! Un abbraccio fortissimo e un bacione con tutto il mio cuore ai tuoi meravigliosi bambini e a Cami in particolare!!! Famiglia Cardile vi voglio un mondo di bene!❤❤❤❤❤❤