Una figlia a quarant'anni
Un viaggio triste. Ma anche bellissimo. (E la paura e stupidità di non farlo quando tutto va bene).
Lei voleva figli, io no.
E a un certo punto decise che fosse il momento.
Un anno dopo, un altro momento.
Poi, a un passo dai 40, l’ennesimo momento.
Ma stavolta, era diverso.
Più matura lei, più stabili noi.
Non avrebbe più passato tutti quei casini delle gravidanze precedenti. Niente più visite dal ginecologo contando i soldi per la benzina. Niente più cercare spiccioli per un ciuccio o racimolare abbastanza per una torta confezionata da portare a scuola per il compleanno.
Avrebbe avuto una figlia in una casa nuova, grande, finalmente sua. L’avrebbe portata in giro su un’auto decente, senza la paura di restare a piedi. Sarebbe stata tutta mamma. E in fondo, quello era ciò che amava di più.
Non aveva fatto i conti, però, con alcune cose.
E no, non sto parlando dei piani saltati in aria. Non ancora, almeno.
Penso al fatto di avere 40 anni, due figli già cresciuti, e dover ricominciare tutto da capo. Come alzarsi la notte con una neonata che urla come se il mondo stesse per finire e tu che devi scoprire il motivo in tempo record. E risolverlo.
C’era già passata. C’eravamo già passati.
Ma questa volta era diverso.
Camilla con la sua mamma ci è stata poco. Ma anche tanto.
Dal momento in cui tornò a casa dall’ospedale - nata scandalosamente prima del previsto - non si è mai staccata dalle sue braccia. O ginocchia. O stomaco.
Andava in bagno, anche nel cuore della notte, con lei in braccio. Qualsiasi movimento, qualsiasi azione, era con lei in braccio.
E ogni volta mi guardava: "Oh... mi aiuti?"
E io, sì, la aiutavo. Ma solo fino a un certo punto. Sembrava ci fosse un collante troppo forte tra quelle due, e spesso era impossibile separarle. A un certo punto credo di aver proprio desistito.
Certo, stava anche con me.
Ma erano frammenti di giornata.
La sera. Prima di andare a dormire. A letto, quando come sempre diventavo di buonumore. E iniziavano tutti i giochi che un padre ama fare con i suoi figli piccoli. Il genere di giochi che i bambini adorano, ma che li fanno agitare troppo. E che fanno incazzare le mamme.
E lei mi guardava di nuovo, stavolta incazzata sul serio.
"Ora la fai addormentare tu..."
E io giocavo la mia carta: "la figlia a 40 anni".
Lei mi lanciava uno sguardo cattivo. Ma durava poco. Il tempo che Cami si calmasse, chiudesse gli occhi. E poi, a bassa voce - non sia mai che la piccola ricominciasse - lo diceva: "Stronzo."
E ridevamo. E poi sarebbe stato un altro giorno. Un altro pianto. Un’altra scena tutta uguale.
In altri momenti rincaravo la dose.
La buttavo sul “razionale”.
"Quando avrò io un figlio a 40 anni, lo terrò. Promesso."
E lei, per quanto le piacesse essere mamma, e per quanto sapesse benissimo che scherzassi, ci teneva a ribattere seriamente: "Un altro figlio? Non con me..."
...
Poi è arrivato il momento dell’asilo. O almeno così diceva.
Secondo me la bambina era troppo piccola. Secondo lei no. O forse, con tutto l’amore del mondo, era davvero troppo stanca.
La mattina però ci provavo sempre.
Vedevo quel piccolo esserino che dormiva nel letto beata. Così dolce, così buona, così calma.
Tutti i bambini sembrano così quando dormono, ma lei di più.
Ancora oggi, ha un'aura di beatitudine quando dorme. Non sembra un essere terreno, e forse non lo è.
"Dai, falla dormire..."
Lei fingeva di non sentirmi. E iniziava il rituale del risveglio.
Una mano tra i capelli. Un’unghia a sfiorarle il viso.
La voce amorevole della mamma: "Amoreee."
Cami apriva gli occhi. Vestizione e preparativi. Poi con mamma direzione asilo.
E io mi sentivo improvvisamente così solo.
E così la mattina dopo ci riprovavo: "Dai, falla dormire."
Spesso vincevo.
Forse era una questione di stanchezza: certi giorni anche lei voleva risparmiarsi di svegliare e vestire una bambina che dorme e vorrebbe continuare a dormire.
A volte però le cose non andavano secondo i piani, almeno non secondo i miei.
Appena chiudeva la portiera dell’auto, l’esserino che emanava beatitudine sgranava gli occhi. E iniziava a urlare.
"Mammaaaa, mammaaa"
Ogni volta un brivido.
E io con la piccola in braccio mi lanciavo giù dalle scale.
"Tilli" - la chiamavo così.
Ma in questi casi, era solo un "Ti". Prolungato. Con tante "i finali". Un grido d’aiuto.
Lei, nel frattempo, aveva già chiuso il cancello e non poteva sentire. Altre volte, ne sono sicuro, fingeva di non sentire. A volte era semplicemente sfacciata: "Resisti, arrivo..."
E per me quei minuti sembravano non passare mai. Una trentina forse, ma sembravano ore.
Con la bambina in braccio. Che continuava a lamentarsi. E lanciare al mondo la sua supplica: "Mammaaa."
E io pensavo che fino a qualche ora prima la stessa bambina si divertiva a fare l’aereo sul lettone. E che, ogni sera, prendevamo in giro la mamma dichiarando la preferenza per papà.
Fare l’aereo era il suo gioco preferito.
Il mio era sentirla dire: "Mamma bleah…, papà wow."
Poi finalmente il cancello si apriva. I cani abbaiavano a festa. Mamma tornava.
E io ero lì ad aspettare come un corriere con un pacco urgente da consegnare. Una bimba raccomandata che passava da una coppia di braccia all’altra alla velocità della luce.
"Esagerato..." diceva.
E io tornavo su quell’argomento lì: "Quando avrò un figlio io a 40 anni me lo terrò io senza lamentarmi."
...
Da quel giorno Cami non ha più chiamato Mamma.
Una cosa sorprendente, inspiegabile, da togliere il fiato.
Non sono incline a credere nel soprannaturale; anche se ammetto che a volte vorrei riuscire a farlo.
Credo invece nel potere degli esseri umani. In capacità e risorse che nel corso della nostra vita riusciamo a mettere in campo e rendere visibili.
E credo, soprattutto, che ciò sia molto più nelle corde dei bambini.
Li vedi piccoli e indifesi. E lo sono. Ma sono anche molto di più. Più forti di quanto pensi. Più forti, spesso, di te.
Quando quella notte sono rientrato con il cuore a pezzi e una notizia terribile da dare, i ragazzi dormivano tutti nel lettone. Con Cami in consegna vista l’emergenza.
Ho svegliato i grandi e detto: "Mamma non c’è più."
Cami dormiva. Non poteva sentire. Non poteva sapere.
Eppure la mattina, a un certo punto, non mi spiego come, dal piano di sopra è arrivato un urlo disperato e insolito: "Papi..."
Da allora è così ogni mattina. Ogni sera. Ogni momento.
Persino nei periodi di febbre alta.
Quando i bambini iniziano a litigare con la ragione, perdono l’orientamento ed entrano in uno stato allucinato di sogni, fastidi e di richieste.
Svegliandosi nel cuore della notte. Quando il cervello non è perfettamente collegato. "Papi."
Di Mamma ha iniziato invece da subito a parlarne. A fare domande, ascoltare risposte, provare a farsele e darsele in maniera autonoma.
Sa che c’è stata e che non c’è più.
Quasi ogni giorno spulcia il telefono in cerca di fotografie, video e altri momenti.
Sa che era una brava mamma.
Sa che adesso ha solo "Papi".
Con una disinvoltura che lascia senza fiato ha riorganizzato credenze, punti fermi e routine.
A me ci è voluto tempo.
Per mesi ogni "Papi" è stato processato dalla mia mente come "cazzo ci sono solo io". Oppure "cazzo chiama papi ma vorrebbe mamma".
Sarebbe stato meglio se…
Qualche settimana dopo fui convinto a incontrare una psicologa.
La prima cosa della quale parlammo fu proprio la mia difficoltà con questa storia qui. Quella del "Papi", dell’essere rimasto solo io. E del fatto che se proprio ci dev’essere una situazione schifosa nella quale ritrovarsi, sarebbe meglio quella nella quale è papà a non esserci più.
Mi spiegò che in realtà non cambia molto.
Solo che in questi casi, nel mio, quando è mamma a non esserci più, il trauma è più visibile, e compare ogni momento.
Di norma - non che sia giusto - in casa fa quasi sempre tutto mamma. E i papà per quanto amorevoli e presenti sono sempre attori co-protagonisti.
E quando mamma non c’è più, il copione cambia, il film cambia.
Non si tratta di un film che prende una piega difficile o drammatica. Di un momento complicato in attesa di risoluzione. Si tratta proprio di un altro genere di film.
Mi convinse.
Oggi penso avesse una buona dose di ragione.
"Ci pensa Papi"
Un altro momento decisivo fu qualche ora dopo.
Parlo sempre di quel giorno lì.
Cami che si sveglia. Che chiama Papi.
Papi, cioè io, che sale le scale come quando vai incontro a qualcosa che ti terrorizza ma non puoi evitare.
Io che la prendo in braccio, che la porto giù. Nella sala principale. La sala del pranzo, della maggior parte della giornata.
Una giornata che però deve ancora iniziare e sarà completamente diversa.
Cami che si deve cambiare.
E io che un pannolino nonostante tre figli non l’ho cambiato mai.
"E ora?"
Tra tanti momenti cruciali e difficili, fu quello il momento in cui realizzai di essere rimasto davvero solo. Catapultato in una nuova vita.
Lacrime, domande, recriminazioni ma poche possibilità: la vita era davvero cambiata.
E poi avanti veloce. Giorni, settimane, mesi, anni. Quasi due anni dopo.
Cami nel bagnetto. Cami al parco. Cami e i capricci per mangiare. Cami e i tentativi per l’asilo. Cami con la febbre. Cami dal pediatra. Cami e le storie per dormire. Quelle da raccontare e quelle perché di dormire non ne ha alcuna voglia. Cami e la colazione. Cami e i cartoni. Cami e i giochi. Cami, la colazione, i cartoni e i giochi mentre papà dovrebbe lavorare.
Una continua ricerca di affiatamento ed equilibrio. Un trovare ritmo durante la tempesta.
Cami e le cose belle.
Potrei continuare.
Ma più vado avanti, più si palesano le sfide e più emerge un aspetto nuovo: è fantastico.
Certo, non c’è un momento nel quale non pensi che non sia giusto godermi questa meraviglia da solo. Che non pensi a quanto era bello - e sarebbe stato bello - vedere Cami affrontare la vita con la sua mamma.
Eppure, per quanto difficile, per quanto non sia una scelta, è meraviglioso questo viaggio.
Nessuno dovrebbe mai sperimentarlo, ma c’è magia nel crescere una bimba da soli. Specie, credo, da padre.
Non sai un sacco di cose. Non sai fare o fare bene un sacco di cose. E il tuo compagno di viaggio - in questo caso compagna - ne sa meno di te.
Eppure si va avanti insieme. Si impara insieme. Ci si diverte a provare e imparare.
C’è una scena che mi fa ridere ogni volta.
Quando Cami non riesce a mettersi come si deve un vestitino. E cazzo, ma quanto sono complicati i vestiti da bambina?
Ormai quando mi chiama non è più la richiesta fiduciosa di chi chiede aiuto sapendo che presto tutto sarà risolto.
Più che altro, è un dire: "Vieni qui, proviamoci insieme."
E così succede.
Ci proviamo.
"Papi, penso che prima bisogna mettere questo."
"Papi, sicuro questo va davanti?"
Boh. Chi lo sa. Ci proviamo.
La metafora di questi quasi due anni soli. Questi quasi due anni insieme.
Ci proviamo.
A volte ci riusciamo.
Altre volte no.
A chi importa?
Andiamo avanti.
La mia figlia a quarant’anni mi ha insegnato questo: “proviamoci”.
La figlia preferita
Senza guide attendibili, con tutti gli errori che comporta per definizione questo percorso, cerco di essere un bravo genitore.
Ma, di sicuro, non sono un “genitore politicamente corretto”.
I grandi lo sanno.
Si dice che non ci siano figli preferiti. Ma non è vero.
E non è di sicuro vero in questo caso.
"La preferita è Cami" dico in maniera sfacciata, senza pietà.
Ovviamente neanche questo è del tutto vero. Ma il senso è questo qui.
"Nessuno tocchi Cami."
E Cami lo ha imparato in fretta.
Ogni intoppo, ogni capriccio, ogni “chi deve mangiare l’ultima caramella?” rivendica il suo ruolo.
Un batuffolo di ricci che si fa avanti con classe e sfacciataggine e avvisa il mondo: "La preferita sono io..."
Qui si potrebbe aprire un’altra parentesi. Sull’essere più che fratelli quando “mamma non c’è più”.
Cami è la loro sorellina piccola. Ma anche la più grande eredità e responsabilità.
Finiamo quasi sempre per metterci d’accordo e ridere insieme.
Mentre Cami porta a casa l’ennesima vittoria e privilegio.
D’altronde è la preferita.
Perché è la più piccola.
E perché mamma l’ha avuta per troppo poco tempo.
Anche se questo ovviamente non lo sa.
Una figlia a 40 anni.
Non ho mai creduto al fatto di un altro figlio.
Nonostante con lei avessi imparato che “mai dire mai”.
E poi invece mi ci sono ritrovato.
Nel modo più rocambolesco. Fuori da ogni logica e previsione.
Catapultato in un universo parallelo. Strambo. Caotico.
Di pannolini, giochi con le bambole e “chat delle mamme”.
Non c’è solo Cami. E dunque di chat da quel giorno ne ho ormai tre.
Un continuo "ciao mamme che pensate di...?" quando sorgono problemi.
Oppure, quando i problemi invece non ci sono, "ragazze che ne pensate se..."
Non rispondo. Osservo e rispetto il mio ruolo da intruso.
Anche se non dovrebbe essere così. Ma nella realtà è così.
Sono un papà solo. Un po’ papà un po’ mamma.
Situazione non così rara ma comunque atipica.
Viene difficile farci l’abitudine.
Anche e soprattutto all’esterno.
Più o meno due mesi dopo, chiesi a una “mamma” se potessi prendere suo figlio per portarlo al cinema con noi.
"Sta scrivendo" su WhatsApp credo durò qualcosa come dieci minuti.
Poi saltò fuori un messaggio striminzito: "Mi spiace, X sta male."
Vabbè.
Quasi due anni dopo, sono felice di comunicare di essere stato “accettato”.
Sono autorizzato a prendere e portare in giro anche i figli altrui.
Non so come ma in qualche modo ho passato l’esame...
L’anno scorso, di questi tempi, per una questione ingarbugliata che si era creata a scuola con l’iscrizione alle medie di Giorgia, “la seconda preferita”, ricevetti un messaggio da una mamma: "Devi venire per forza."
Messaggio un po’ minaccioso.
Ma anche l’ammissione a un club ristretto di “mamme”. E l’eccezione di accettare persino “un papà”.
Qualche settimana fa invece, passando a prendere un compagnetto per trascorrere una serata insieme, ho incontrato “un papà”.
Saluti di rito. E poi quella frase lì: "Ciao grazie, poi ti senti con mia moglie per organizzarti al rientro."
Stavo per dire: "No problem, man..."
Ma ho optato per un più opportuno "Certo, caro..."
E tu “quel poco di tempo (senza tua moglie) li terrai con dolore”
Tempo fa, più di un anno fa, qualche mese dopo insomma, uno dei miei più cari amici venne a trovarmi. Un momento per stare insieme, con la scusa dell’inizio del campionato, qualche birra, una partita da vedere insieme.
Per una serie di circostanze venne solo. O quasi.
Con il figlio di 5 anni.
La mamma, sua moglie, era dovuta partire per lavoro. E lui, da bravo marito e padre, si era offerto (costretto) a tenere il bambino.
Arrivò da me invecchiato di anni. Tutto sudato nonostante il clima ormai fosse più clemente.
“Esaurito”.
Questo lo stato ma anche le sue parole.
E in due minuti condivise con me tutti i guai del trovarsi solo…
Nel frattempo il bambino lagnava. A volta i bambini lo fanno.
Aveva fame.
E iniziò una guerra su cosa e quando avrebbe dovuto mangiare…
Il mio amico iniziò ad andare nel panico, anche più di prima.
Mi disse diverse cose.
Io ricordo solo “non puoi capire… mi sta facendo impazzire”.
Feci la cosa che mi sembrò più strategica: gli passai una birra, indicai il divano di fronte la tele e dissi “ci penso io”.
Dopo il primo sorso di birra si alzò, venne da me ai fornelli e volle scusarsi.
“Scusa”.
Ovviamente dire “non puoi capire” a una persona che è rimasta sola con 3 bambini non è un grande esempio di tatto e intelligenza.
Ma capii.
Capivo. E capisco.
Purtroppo, in scene di questo tipo, non c’è nulla di “anormale”.
Anche se non dovrebbe. Ma è così.
Qualche rimpianto in effetti c’è...
Un sincero applauso a chi è arrivato sin qui.
Ho la piena consapevolezza di aver “parlato” senza troppa coerenza. Lanciato storie e messaggi che non si sa dove vogliano andare.
Avevo in testa questa storia dei “40 anni”.
Sono entrato negli anta appena qualche settimana fa.
E mi è venuta in mente questa storia qui.
Ma anche qualche riflessione.
Su quanto nonostante tutto sia un’esperienza bellissima.
Su quanta gioia, risate e soddisfazione ci siano sparse in un percorso dove sei l’unico responsabile. Dove sei PROTAGONISTA e non comparsa.
Ma alla fine la vera riflessione è un’altra.
Non tanto raccontare - a sprazzi o male - cosa significhi essere un padre single...
Più passa il tempo e più invece mi rendo conto di cosa stia parlando in questa newsletter. Di quelle che sono le vere riflessioni che lancio ogni tanto mandando una mail.
Di cosa meriti davvero la nostra attenzione.
Non si tratta tanto di “lutto”, di “morte”. Riguarda “la mortalità”.
Cioè la vita.
Da esseri mortali dovremmo avere molto più in considerazione quello che davvero caratterizza, riempie, dà senso alle nostre vite.
E il fatto è che molte di queste cose le si capisce sempre troppo tardi.
Siamo pieni da fare schifo di corsi, guide, manuali su come “crescere” e raggiungere i nostri obiettivi. Ma mancano riflessioni lucide, momenti consapevoli, nei quali indaghiamo il costo di questa continua corsa.
O il costo di continuare lungo una strada tracciata chissà da chi e chissà quando.
Il tema della genitorialità, della famiglia, dei ruoli e degli stereotipi nella famiglia, è un buon esempio.
Per mesi ripercorrendo la nostra vita insieme ho pensato di essere stato “bravo”. Di non dovermi pentire di nulla o avere rimpianti.
In parte, fortunatamente, è così.
Abbiamo vissuto a mille. Insieme. In tutto.
Ci siamo divertiti e abbiamo sofferto insieme.
Non abbiamo sacrificato mai “oggi” in vista di “domani”. E anche se questo si può inserire alla voce “strafottenti”, siamo anche stati lungimiranti. Una consapevole eccezione alla regola del “ignora che la vita possa finire”.
Eppure, riflettendoci oggi, qualche rimpianto c’è.
Mi sono sempre considerato “un buon padre”.
Non perfetto. Ma uno che ci provava sì.
Uno che non si tirava indietro sì.
Li ho seguiti.
Ho avuto la fortuna di trascorrerci la maggior parte della giornata.
Di fermarmi a parlare con loro.
Li ho sempre messi in cima alle priorità.
Eppure, e me ne rendo conto adesso, li ho vissuti solo a metà.
Nella migliore delle ipotesi da co-protagonista.
Una colpa mia. Ma frutto anche e soprattutto di una cultura per la quale “stai lavorando dunque va bene”. O “è normale che sia la mamma a...”
Solo oggi, nel peggiore dei modi e nel peggior scenario, mi rendo conto di quanto spreco ci sia. Di quanto non servisse chissà quanto. Di quanto fosse possibile fare di più e andare oltre stereotipi e il “si è sempre fatto così”.
Di quanto accudire una figlia, anzi “vivere una figlia” sia - per chi lo sceglie - una cosa naturale e una benedizione.
La sera, a fine cena, specie in queste sere d’estate, ne parliamo scherzando anche con i ragazzi. Dodici e tredici anni, un concentrato di stronzaggine e sincerità.
Siamo forti insieme.
Ma più che padre/figli siamo qualcosa di simile a una tribù che deve sopravvivere in una terra sconosciuta.
Il che, per la cronaca, non ci vieta di divertirci un sacco.
Ad ogni modo, in queste sere, ogni tanto il discorso finisce proprio qui.
E a turno prendendomi in giro lo dicono: "è viziata..."
"Con noi non hai mai fatto..."
Questo o quello.
Ma ora, a parte la goliardia e la stronzaggine della quale parlavo prima, mi rendo conto di quanto sia vero.
"Perché prima c’era lei."
Ecco la risposta.
La scusa.
La credenza folle.
(quasi due anni dopo) I bambini stanno bene
Tra le ultime cose che mi disse quella sera.
Quando aveva già capito che “non ci sarebbe stata più”.
"Davi i bambini..."
"Cami..."
Un grido doloroso.
Un richiamo e una supplica.
Pieno di paura.
E queste parole ce le ho scolpite ancora oggi in testa.
E sono quelle che mi fanno andare avanti anche quando sembra che la forza non si possa proprio trovare.
"I bambini stanno bene."
Le scrissi così in un post allucinato qualche giorno dopo.
Condiviso su Instagram, che mi pareva il posto più vicino per parlarle.
27 Maggio 2023 (qualche settimana dopo…)
“I bimbi stanno bene.”
Io questo social non l’ho mai capito.
Però a un certo punto ho trovato la sua utilità.
Quando uscivi, e non rispondevi.
Quando ti perdevi al supermercato.
Quando ti succedevano, sempre a te, le cose più assurde e incredibili.
Quando tardavi 5 minuti.
E impazzivo.
Aprivo questo social, come uno sconosciuto.
E trovavo traccia di te.
Una storia, un messaggio.
Fiuuu… è tutto ok.
Ah è da Lidl.
Ah si è fermata a prendere il pane.
Mi faceva incazzare e ridere allo stesso tempo.
Mi prendevo in giro da solo, prima che arrivassi e iniziassi a farlo tu.
Guardavo le storie per vedere dov’eri.
Calcolavo la distanza.
“Sta prendendo il pane…” 5 minuti e 3 km.
“Sta facendo benzina…” 7 minuti e 6 km.
D’altronde, ti perdevo anche in casa.
A volte anche a letto.
Quando il tuo cuscino era troppo lontano.
Quando ti alzavi per andare in bagno, a bere, a fumare una sigaretta.
“Ma dove sei?”
Oppure ti svegliavo.
“Che c’è?” dicevi.
E io “niente, non ti trovavo”.
Ho sempre cercato di calcolare la distanza che ci separava.
La misura giusta mi è sembrata sempre un abbraccio.
Lo faccio ancora.
E spero sempre di sentire “Eccomi qui.”
Ma in realtà so benissimo cosa diresti.
Anche se immagino anche tu avresti mille cose da dire.
“Davi, i bambini?”
E niente, continuo a cercarti, calcolare la distanza.
E se per caso puoi leggere: “i bambini stanno bene”.
Ah sto bene anche io.
Lo so dovrei “essere a pezzi”...
Ma nonostante tutto non riesco a dire che sia andato tutto in frantumi.
Quello che abbiamo creato negli anni, stando sempre attenti alle distanze, stando sempre vicini, c’è ancora: una famiglia affermata.
Lo dicevamo in un garage, con una saracinesca in camera da letto.
Lo dico adesso, anche per te.
È tutto fottutamente più triste e difficile.
Ma non a pezzi.
Semmai ci sono in giro dei pezzettini di te che rendono tutto più sopportabile.
Sono i tuoi bambini.
I nostri bambini.
E sì amore, i bimbi stanno bene.
Quasi due anni dopo: “stanno ancora bene”.
Stiamo bene.
Anche se è tutto un casino.
Anche se è stato ed è maledettamente difficile.
Ogni santo giorno.
Però è anche così bello.
Prendersi cura di ciò che si è creato insieme.
Portare avanti una promessa.
Persino una parola desueta e poco sexy come “responsabilità”.
Una figlia a 40 anni, che non pensavo di aver avuto, che pensavo di non avere, mi ha insegnato questa cosa qui: ciò che conta davvero.
Ciò per il quale dovremmo sbatterci ogni giorno.
In barba a post social, esempi strampalati e ritoccati, libri e guide motivazionali della peggior specie.
Il rimpianto è questo qui: nonostante tutto potevo farlo anche prima. Potevo essere ancora più sbilanciato verso le cose che contano davvero.
Il sollievo sta nel fatto che ci sto provando adesso.
Che è schifosamente difficile. Ma anche schifosamente entusiasmante.
E quasi due anni dopo, se avessi l’opportunità di rivolgerle una sola frase le direi senza dubbio questo: "Amore, guarda cazzo quanto sono bravo..."
Lei forse mi risponderebbe "Esagerato."
E forse avrebbe ragione lei.
Forse sarebbe questo il vero messaggio di questa newsletter.
Pensiamo ci siano cose che abbiano un costo altissimo. Troppo alto. Che in giro ci siano cose più “vantaggiose” sulle quali investire.
Ma ci sbagliamo.
Quasi sempre ce ne accorgiamo troppo tardi.
Oppure, e questa è la mia stupida speranza, ce ne si accorge leggendo cose così, scritte in modo confusionario.
Magari sei ancora in tempo…
…
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Non solo sei un bravo scrittore,ma soprattutto un bravo padre! Italia sarebbe, è, orgogliosa di te senza alcun dubbio!!! Quanto mi manca…… un abbraccio grande a tutta la tribù ❣️
Ciao Davide come o già avuto modo di dirti non solo sei un magnifico scrittore...forse è raccontando la realtà la vita veramente vissuta che arrivi a toccare tutte le corde del mio cuore sono sicurissima che Italia non abbia mai dubitato della tua capacità di essere un ottimo padre ma neanche io e forse in tanti altri ho mai avuto dubbi! Sei fantastico come del resto è tutta la tua splendida famiglia!! Un abbraccio fortissimo e un bacione con tutto il mio cuore ai tuoi meravigliosi bambini e a Cami in particolare!!! Famiglia Cardile vi voglio un mondo di bene!❤❤❤❤❤❤