L'ultima newsletter
Venti e una cosa che ho capito. Una per mese passato insieme. Una per mese passato "senza".
Quasi due anni di questa newsletter. Provo a tirare le somme. 20 cose che mi pare di aver capito. Una per ogni mese senza lei.
1. Non c'è un manuale Ho cercato su Google "come si sopravvive". Milioni di risultati: guide, tutorial, wikihow illustrati. Ho cercato "dolore", "lutto". Altri milioni: fasi, tecniche, resilienza. Come fosse un'equazione. Balle. Non c'è un manuale che funzioni, perché il dolore è unico, come noi. Tolstoj lo disse meglio: "Ogni famiglia infelice lo è a modo suo". E Megan Devine, terapista del lutto, dopo la morte del marito confessò: "Avrei voluto scusarmi con i miei clienti... Niente di quello che sapevo si applicava a una perdita così". Poi ci ha scritto un libro, ovvio.
2. Siamo tutti incompetenti I consigli della gente, spesso, sono inutili. Non cattivi, solo inutili. Qualche mese fa, al supermercato, una signora mi vede con Cami. Molla il carrello, mi corre incontro: "Anche io ho perso mio marito... le do dei consigli?". Parla per venti minuti. Cosa fare, non fare, elaborare, vivere. Annuisco. Il gelato si scioglie. Lei non sa come si fa. Nessuno lo sa. Siamo tutti incompetenti davanti al dolore. Alcuni solo più convinti di sapere come si fa.
3. Non va bene essere tristi In teoria, sarebbe un diritto, forse persino utile. In pratica, no. È sconsigliato, visto male. Come Tristezza in Inside Out: sfigata, da tenere lontana dai comandi. Frankl: "La nostra filosofia valuta la tristezza un sintomo di devianza". Ed è così. Essere tristi è un'anomalia da correggere. "Non pensarci", "distraiti", "pensa ad altro". Una cultura che combatte la tristezza a tutti i costi.
4. Figuriamoci nel lavoro Essere tristi al lavoro è ancora peggio. È sintomo di debolezza, inadeguatezza. Un amico mi disse: "Se scrivi queste cose... chi ti chiama per un lavoro?". Aveva ragione. In una società iper-competitiva, nessuno vuole circondarsi di gente triste, non performante. È la struttura, non solo la cultura.
5. Vittime, sopravvissuti, e poi? Se la tristezza va superata in fretta, le storie che ci piacciono sono quelle del "dopo". "Ero a terra ma mi sono rialzato". Il viaggio dell'eroe, la trasformazione, la vittoria. Se non segui questo copione, resti "vittima". In una società che parla di "battaglie perse contro il cancro", che ci aspettiamo? Io non mi sento né vittima né sopravvissuto. Quello che non ti uccide non ti rende più forte. Ti rende diverso, come diceva Joker.
6. Sii stanco Basta dire "sii forte" a chi soffre. È più onesto, gentile ed efficace dire "sii stanco". Un invito ad accettare che certe sfide sono troppo dure. Il dolore è dolore, non un test attitudinale. Essere stanchi è legittimo. Punto.
7. Non va così male Consiglio pratico per chi sta passando un periodo di merda: quando vi chiedono "come stai?", rispondete "dai, non va così male...". Funziona sempre. L'interlocutore si sente sollevato, voi siete liberi di tornare sul divano con la vostra birra. Testato.
8. Nessuno rispetta le regole (del dolore) Ricordate i cartelli "Vuoi il mio posto? Prendi il mio handicap"? Ecco. La Ring Theory dice: sfogati con chi sta meglio di te, supporta chi sta peggio. Bella teoria. In pratica, tutti si sentono il centro del mondo e scaricano problemi su chiunque, fregandosene di come stai tu. Risultato: discussioni surreali che ti saresti risparmiato volentieri.
9. Non dirmi che c'è sempre un motivo... Altra cosa che ho capito: non c'è sempre un cazzo di perché. Sì, puoi rialzarti dopo una caduta. Ma sei caduto. E non cadere era meglio. Semplice. Rispettiamo il fatto che nessuno sceglierebbe di cadere per imparare qualcosa. A volte, le cose succedono. Punto. (E come disse Colbert: «Se qualcuno dice 'tutto accade per una ragione', lo spingo giù dalle scale e chiedo: “Capito la ragione?”»).
10. Ci sono (sempre) parole? Il titolo di questa newsletter non è casuale. Sì, credo ancora nel potere delle parole. Quelle da cercare, da usare con cura, da dirsi. Ma non credo esistano "parole giuste" per chi soffre. Se si tratta dei soliti clichè ("sii forte", "c'è un motivo"), meglio il silenzio.
11. La Chat delle mamme "Qualcuno sa se domani portano il grembiule?" "@Tilli lo sai tu?". Mi fermo a metà toast. È la prima volta che la taggano da... be', da allora. Panico nel gruppo. "Scusate", "Mi dispiace", "Non volevo". Silenzio. "Sì, domani grembiule", scrivo io. È il mio primo messaggio lì. Silenzio di nuovo. Poi: "Grazie", "❤️", "🙏". Ne ho 3 di queste chat. Messaggi che iniziano con "ragazze", audio infiniti sui figli esuberanti ("Oh, siamo mamme, dobbiamo pensarci noi"). E l'8 Marzo: "Auguri ragazze!". Surreale.
12. Non imparerai a fare le trecce "Papi mi strappi i capelli!". "Scusa". Nel tutorial sembra facile: sopra-sotto-incrocio. "Ahi!". "Scusa". "No, fai sotto-sopra-sotto!". "C'è differenza?". Ci ho provato. Ho fallito. Ho desistito. Ci sono cose che non sappiamo fare. Meglio trovare il proprio campo da gioco, fare la differenza con le proprie carte. Non credere a tutto quello che vedi su YouTube.
13. Alexa non lo sa "Alexa, che ore sono?". “Buongiorno Tilli, sono le 7”. "Alexa, che tempo fa?". "Buongiorno Tilli, oggi 18 gradi...". L'IA non è poi così intelligente. Cami se n'è accorta: "Papi, ma Alexa non lo sa... pensa che sei mamma?". "Boh amore, è pazza". Forse dovrei cambiare le impostazioni, cancellare la sua voce dagli annunci. Uno dei manuali sul lutto lo consigliava. Ma i manuali non funzionano. E non li seguo.
14. Le piante moriranno 105 piante. Contate, schedate, battezzate da lei. Il suo esercito verde. Ho provato con un'app: "Inquadra la foglia e ti dico come curarla". Come se bastasse una foto, o Google, per prendersi cura di qualcosa. Ne sono rimaste tre. Naufraghe. All'inizio tenevo il conto delle morte, un piccolo lutto ogni volta. Poi ho smesso. Ci sono cose che puoi controllare, altre no. A volte non hai le energie per curare le piante. E va bene così. Non è un alibi, è un dato di fatto.
15. Le sottrazioni sono più difficili Primo pranzo fuori dopo... "Per quanti?". "Cinque. Cioè, quattro più una bimba... un seggiolone?". "Sì". La ragazza è nuova, non sa. Che bello. Ci fermiamo intorno al tavolo. Prima avevamo un sistema: io di fronte a lei, i ragazzi di fronte, il seggiolone accanto a Mamma. Ora non torna più. "Tutto bene?". "Sì, scegliamo i posti". "Niki?". "Uguale". "Giorgia?". "Boh". "Io accanto a Papi!", urla Cami. "Ok, allora io qui...". Ordiniamo. Patatine per Cami ("Per me!"), insalata e birra per me, Coca Cola ("La Coca Cola!"). I ragazzi? "Boh". "Uguale". Perdo la pazienza. "Mi scusi. Dobbiamo andare, un problema". "Ma le patatine?". "Amore, le prendiamo altrove, quelle magiche di mamma". "E la Coca Cola?". "Sì". In macchina. "Cami, ti ha chiamata Principessa!". "Sì, ho la corona". "Non da regina?". "No, principessa". "Lo so, scherzo. Sei la mia principessa". "La regina era mamma. Non ricordi?". Succede ancora oggi, dopo 20 mesi. "Per quanti?". "Cinque. No, quattro...". Matematica del dolore: le sottrazioni sono maledettamente più difficili delle addizioni.
16. Non dev’essere divertente Mi sono sentito in colpa, a volte, per scrivere storie tristi. Ma come dice Marlowe qui su Substack, raccontare le cose come stanno, senza indorare la pillola, può essere d'aiuto. Più del divertimento forzato. L'ossessione per il facile, il lineare, il lieto fine è una trappola. Se non è divertente, spesso è vero. È umano. E se è umano, funziona per altri umani.
17. Sono solo storie Vivere in un posto non ti rende un esperto di quel posto. Impari come ci funzioni tu, lì dentro. Racconto storie, frammenti di passato, presente, futuro. Non perché qualcuno capisca "come funziona". Ma perché, forse, qualcuno pensi: "Ah, non sono solo io a sentirmi perso". Le storie servono a condividere il casino del viaggio, non a dare mappe. Come dice Baldwin: "le cose che ci tormentano di più... ci collegano a tutti".
18. Una mattina alla volta "Piccola, ci svegliamo?". Sussurro. Frequenze basse, per non rompere la bolla del sonno. "Cucciola?". "Vita?". Sono tutte domande con lei. Bisogna aspettare che sia pronta. "Vuoi dormire tutto il giorno?". "Sì," e ride. Ecco il segnale. "Dai, colazione. C'è la Nutella". Resiste a tutto, non alla Nutella. "Andiamo all'asilo?". "Sì amore, a giocare". Segue trattativa serrata su passeggiate, pigne, parco. Alla fine, cedo: "E che cazzo Cami, alziamoci". "In braccio." Ordine perentorio. Sa negoziare, la piccola. E sa quando fermarsi. Come si mangia un elefante? Un boccone alla volta. Come si va avanti? Una mattina alla volta.
19. Tanto qui non rimborsano mai Il suo film preferito in inverno era The Family Man. Cage che da miliardario viene catapultato in una vita modesta con famiglia, non si ritrova, poi capisce che è felice, e viene riportato indietro. La vita "sfigata" diventa quella ricca. Ha visto cosa poteva essere, e ora nulla ha senso. Ecco, mi sento un po' così. Ma senza campanello per cambiare vita. Qui, come dice Liga, non rimborsano mai. Zero resi, zero cambi. Motivo in più per goderci quello che c'è. Prendersi meno sul serio. O forse, non combattere proprio.
20. Sai che c'è di bello? Che non sei morto Una sera, Cami si gira e mi fa: "Sai che c'è di bello, Papi? Che non sei morto". Me lo dice ancora, ogni tanto. E si spaventa se "mi perde". Se sono al pc, se vado in bagno senza avvisare. "Papi!". Un allarme nucleare. Corro. Mi guarda, si assicura che ci sia. E a volte, capisco: c'è ancora tanto, anche se tanto è perso. Anche io ci sono ancora.
Okay, 20 punti. Tirare le somme serve anche a questo: capire quando un capitolo si chiude. Ho iniziato a scrivere qui per istinto, quasi due anni fa. Per non sentirmi solo nel buio, per dare un nome al casino. Mi è servito, e forse è servito a qualcuno leggere che non era l'unico a sentirsi perso. Ma non posso restare fermo qui. Rischia di diventare un museo della mia stessa storia, un monologo ripetitivo. Non mi interessa la narrazione dell'eroe che rinasce, quello che ringrazia per la lezione. La vita, la mia vita almeno, non funziona così. Ricordo cosa dissi a un'amica subito dopo: "Non voglio una versione scadente di quello che avevo. Preferisco qualcosa di completamente nuovo". Ecco, è ancora valido. Fare paragoni con il passato è un disastro. Ma guardare a oggi, a questo presente incasinato e pieno di vita, è diverso.
Quindi continuerò a scrivere, perché è l'unica cosa che so fare per restare intero. Ma parleremo d'altro. O meglio, parleremo ancora di vita, di fatica, di senso, di figli che crescono, di lavoro che sfianca, di momenti di bellezza assurda, anche se non perfetti, anche se non belli in senso cinematografico. Parleremo di adesso. Con la stessa voce. Senza mappe, come sempre. Vediamo dove ci porta.
Da quando ho iniziato a seguire la tua newsletter ho pensato spesso a “Diario di un dolore”, un libercolo (dal peso specifico enorme, in proporzione) che raccoglie i pensieri dello scrittore CS Lewis all’indomani della morte di sua moglie. È un viaggio nella (sua) elaborazione del lutto in cui è facile ritrovare anche la propria esperienza, accanto alla consapevolezza che il dolore è sempre personale, e fondamentalmente non condivisibile.
Alla fine, Lewis decide di smettere di scrivere, di chiudere quel diario. In parte per “andare avanti”, in parte per sfuggire al rischio di piangersi addosso, ma soprattutto per non rischiare di ricreare un’immagine di lei che non le fosse fedele, che corrispondesse invece a pensieri e bisogni che in realtà appartenevano a lui. O almeno lo ricordo così.
Comunque, il succo di questo sproloquio è: a un certo punto bisogna chiudere il quaderno. Siamo fatti così, ci teniamo a galla così.
Auguro ogni bene a te e ai tuoi bambini, un giorno alla volta.
Grazie per questo pezzo di strada assieme. Lo so che hai scritto principalmente per te ma io, leggendoti, ho ricavato tanti spunti riflessione e mi ha aiutato a capire cosa dev’essere stato per mia sorella perdere suo marito, Paolo, oltre 26 anni fa… cosa che non avevo assolutamente compreso nella sua profondità del dolore, ma che oggi, grazie a te, posso almeno dire di aver fatto dei passi avanti. Mi dispiace per te, che tu abbia passato e stia passando questa esperienza ma spero che l’essere stato di aiuto a qualcuno possa farti dire che “serve a qualcosa” anche se tu te la saresti ben volentieri evitata questa esperienza.