L’ultima cosa bella. Di quel giorno. Di ogni giorno.
"Quando puoi fare una cosa bella facci caso". Il 99% delle volte ci apparirà marginale. Ma l’1% delle volte sarà l’ultima occasione di poter fare un’ultima cosa bella.
Tornando a casa quella sera dissi “fiuu”. No, forse non lo dissi. No, non lo dissi di sicuro. Ma lo pensai. E so che è strano, che è qualcosa di incomprensibile. Me ne rendo conto adesso come allora; e allora mi fece paura. Un mese e una manciata di giorni dopo mi rendo però conto che avesse senso.
Dissi fiuu rivivendo le ultime ore, che ovviamente noi, come nessuno su questo mondo, sapevamo fossero le ultime.
Il suo ultimo giorno, il nostro ultimo giorno, fu un giorno pieno. Un giorno “giusto”.
Anche se come sempre, ogni storia puoi leggerla in due modi: e per certi versi quello fu solo un giorno cattivo, bastardo e beffardo come pochi.
La mattina avevamo fatto colazione di progetti.
Avevamo comprato casa da meno di un mese, e da un paio di giorni avevamo iniziato a progettare ed arredare.
Prendiamo questo? Prendiamo quello? Cosa ci serve di più?
Per farmi un po’ male, e rendere l’idea, proprio quel giorno, la mattina, avevamo pensato che in casa ormai servisse una sedia in più per il tavolo da pranzo.
La piccola non usava da tempo il seggiolone e dunque “beh ormai siamo cinque”.
Qualche ora dopo quella sedia non sarebbe servita più, essendo “quattro”. Nuovamente, quattro.
Tra tanti carrelli abbandonati nel web c’è anche il nostro. Con quella sedia lì…
Ma quel giorno fu anche e soprattutto il giorno del “biliardo”.
Un acquisto non esattamente indispensabile ma che per noi, per come abbiamo sempre vissuto, serviva eccome.
Erano anni che sognavamo un biliardo in salotto. Un passatempo a portata di mano per goderci le serate in casa; e sì amavamo un sacco stare a casa, specie nella nostra.
Quel giorno la giornata iniziò al telefono con il servizio clienti: “non arriva oggi? Ma come non arriva?”
Per qualche motivo la consegna non era stata programmata in tempo e ci dissero che avremmo dovuto aspettare 24 ore in più.
Lei disse “non esiste”.
“Non puoi aspettare?” chiesi in maniera retorica.
“No” rispose.
E dopo un paio di minuti era già sulla jeep, insieme a un angelo che da anni aiuta in casa, per andare a ritirarlo personalmente.
Qualche ora dopo quel biliardo era al centro del salotto. Montato. Apparecchiato. Pronto per essere vissuto.
Qui viene la parte bella della storia - e quella triste ovviamente.
Dalle 17 alle 22, quando tutto si fermò e la nostra vita sarebbe cambiata per sempre, giocavamo tutti insieme.
Ma qui, prima, c’è anche un’altra storia da raccontare, ed è quella parte della storia che mi fece pensare “fiuu”, anche se pensandoci non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce.
Un attimo prima di iniziare a giocare, la partita poteva essere già finita.
L’idea era che con noi giocassero i bambini, in un classico familiare “2vs2” con ciascuno che prendeva in squadra un bambino.
Il più grande però neanche il tempo di iniziare aveva trovato da ridire contro la sorella. E poi, come spesso succede, contro sua mamma. Capitava spesso, capitava sempre. Non perché non avessero un buon rapporto ma anzi per il fatto di avere un rapporto così viscerale da vivere le emozioni a mille all’ora.
Fatto sta che aveva abbandonato tutti, salutato tutti in maniera cortese - beh non proprio - e con il piglio del dodicenne incazzato e non capito aveva detto “vabbè giocate voi, me ne vado giù a giocare al pc”.
Fu in quel momento che avvenne la magia, una botta di culo forse. O un segno del destino. Tante volte l’epilogo era stato diverso. Tante volte, per “colpa” di uno o dell’altro le nostre partite familiari erano saltate.
Non quella volta.
Lo richiamai, riuscì a convincerlo ad unirsi a noi. A giocare insieme.
Cinque minuti dopo, ogni tensione era svanita. Passammo ore giocando insieme. Scherzando insieme. Vivendo insieme e pienamente un giorno in famiglia. Sarebbe stato l’ultimo, anche se nessuno lo sapeva.
L’ultima cosa bella
Immagino si sia ormai capito. Tornando a casa quella sera dissi fiuu, o almeno lo pensai, perché immaginai un finale alternativo. Non un finale bello nel quale non succede nulla e siamo tutti felici. Ma un finale nel quale al brutto si aggiunge il “peggio”.
Mio figlio che se ne andava giù seccato litigando con sua mamma. Io che mi sarei messo al pc a sbrigare qualche cosa. Lei che se ne sarebbe andata così, in un giorno così. Triste e vuoto.
Dissi fiuu, perché ancora più che gli addii fa male il modo in cui ci si lascia.
Noi ci siamo lasciati bene. Persino alla grande. Ridendo, scherzando, vivendo.
Mi rendo conto che dirlo possa suonare strano, persino folle. È sembrato così anche a me. Ma non adesso. Un mese e qualche giorno dopo mi pare tutto così sensato invece.
Qual è l’ultima cosa bella che abbiamo fatto insieme?
Qual è l’ultima cosa bella che regaliamo a noi e agli altri nelle nostre giornate?
Non ci facciamo caso. Non ci pensiamo.
Ma solo perché amiamo giocare agli immortali che hanno sempre tempo e modo di fare cose belle. Quando scopri che non era affatto vero, quando la verità la incontri nuda e schifosa come è davvero, beh tutto cambia.
Inizi a farci caso. Alle ultime cose belle fatte insieme. Alle ultime cose belle di ogni tua giornata.
Non è una fottuta torta
In Design Your Life, Bill Burnett e Dave Evans, parlano della vita come una “torta”.
Dapprima condannano il mito del bilanciamento (vita/lavoro), ricordando che è impossibile in una giornata dedicarsi in modo uguale a tutte le aree della vita che sono importanti. Successivamente, e qui l’idea di “torta” (per quanto ammettono sia una semplificazione) spiegano chiaramente che una vita ben progettata funziona solo nel tempo. Solo alla fine insomma - parlano di retrospettiva - puoi sapere se hai progettato bene o male.
In un passaggio - è ancora una semplificazione - dicono che ciò che ci si dovrebbe augurare è che il giorno del funerale, qualcuno dica o pensi «Dopotutto, ha avuto una torta divisa proprio bene».
Questa storia non mi ha mai convinto e oggi, per tutto ciò che sto vivendo e in parte ho raccontato, mi convince ancora meno.
Il grande problema è che anche pensatori brillanti tendono spesso a presentare la progettazione della vita come qualcosa di infinito; “design infinito” è proprio un termine utilizzato nel libro.
Questo ha però senso solo dopo. Solo in fase di “retrospettiva”.
Se arrivi a quell’età nella quale non ti nascondi più dalla morte - ammesso sia possibile arrivare ad aspettarselo- , guardando ciò che hai fatto forse ha senso accettare quei momenti di sbattimento, quelli di poche relazioni, quelli di poca felicità. Se arrivi alla “fine”, forse puoi giustificare gli inizi come necessari al raggiungimento del fine.
Se arrivi a quell’età nella quale la morte non la vuoi ma prima o poi te la aspetti, forse sì puoi guardare la torta e dire “tutto sommato, ho vissuto bene”.
Se non ci arrivi no.
La morte non è affatto un cigno nero. È bianco, bianchissimo. E le statistiche non contano. Ciò che conta è la varianza.
In un certo momento della storia, galvanizzati dai progressi della scienza e da altri fattori economici, abbiamo iniziato a pensare alla morte come un cigno nero quando invece era bianchissimo e in mezzo a noi: “oddio, come è potuto succedere?”
Ci affidiamo alle statistiche ma non le capiamo fino in fondo.
Non capiamo che nella vita contano sino a un certo punto.
Contano in un casinò, non nella vita. Contano quando hai altre possibilità, non quando ne hai solo una. Taleb tirerebbe in ballo la fallacia ludica…
Per fare un esempio molto semplice pensa questo: lanciando una monetina in aria ci sono il 50% probabilità che esca testa e il 50% che esca croce.
Un tizio ti si avvicina e ti propone una scommessa: scommetti 1000 euro che esce croce?
E in più, ti dice, ogni volta che vinci tu ti pagherà il doppio.
La statistica dice che il tizio che hai incontrato è un pazzo, o un pollo. E che è una scommessa sicuramente da accettare.
Se perdi, perdi 1000 euro.
Se vinci, ne vinci il doppio, 2000.
Avendo il 50% di probabilità… beh è una scommessa vincente. Quello che sfugge però è il concetto di varianza.
Il fatto che un evento si allontani, anche momentaneamente dalla statistica, dalle previsioni. Su un milione di tiri… vinceresti un sacco di soldi. Su un singolo lancio potresti perdere e basta…
Ed ora il punto: se hai solo 1000 euro è una scommessa d’azzardo. Se quei 1000 euro ti servono per campare un mese, beh dovresti declinare l’offerta. Lo stesso, suggerisce la ragione, se non hai la possibilità di giocare abbastanza per far sì che la varianza (che qualcuno chiama fortuna/sfortuna) venga annullata.
E adesso pensiamo alla vita.
Le statistiche dicono che nel mondo l’aspettativa di vita è circa 70 anni. E dunque? Non dovrebbe fare alcuna differenza per ciascuno di noi.
Avendo solo una vita, "sbagliarsi" una volta è troppo.
E dunque, qual è l’ultima cosa bella che farai?
Tornando a casa quella sera dissi fiuu, o almeno lo pensai, e adesso invece lo dico proprio, perché in una società che alla morte non ci pensa, mi rendo conto di essere stato “fortunato”. L’ultima cosa bella di quella giornata di merda è frutto di una serie di circostanze poco prevedibili, caotiche.
Bastava un niente per dirsi addio in una giornata vuota.
Non è che io sia un raro esempio di illuminazione. è che, anche nella più sfigata delle variabili esistenziali, ho avuto una botta di culo. Però, quando ti succede, impari. Ci fai caso. Inizi a pensarci con insistenza.
Che la vita non è una torta. Che non è una corsa a tappe. Tipo i consigli alla Jack Ma: “A vent'anni impegnatevi nello studio, a 25 anni iniziate a lavorare e fate errori, dai 30 ai 40 focalizzatevi sulla professione, dai 40 ai 50 anni non tornate indietro, dai 50 ai 60 investite nei giovani, dai 60 anni in poi andate al mare!”
Non è un “prima il dovere poi il piacere”. Come continuano a credere tantissimi che continuano a lavorare aspettando il fine settimana, le ferie, la pensione, una exit…
La vita è una serie di giornate nelle quali, ogni santo giorno, lo scopo dovrebbe essere cercare di fare un’ultima cosa bella.
Solo per questa volta
C’è un libro fantastico, Fare i conti con la vita, scritto da uno dei pensatori più acuti dei nostri tempi, non solo nel campo del business e dell’innovazione: Clayton Christensen. È nato da uno dei suoi ultimi discorsi ai laureandi di Harvard. Era il 2010 e fu allora che comunicò di avere poco tempo da vivere. Gli era stato diagnosticato un cancro in fase terminale.
Nel libro, non il solito manuale di auto-aiuto, offre un approccio alla vita ispirato ai principi strategici con i quali si guidano le aziende. E si cerca di portarle alla prosperità o almeno non farle fallire.
E c’è un consiglio che ho sempre trovato sincero ed efficace: pensare al contrario.
Anziché chiedersi come avere una vita felice, il segreto potrebbe essere come non mandare tutto a rotoli. Lui sfida le persone a chiedersi: “come non finire in prigione”.
Risposta sintetica: evitare di cadere nella trappola dei costi marginali.
Evitare di pensare “solo per questa volta”
Pensare cioè che un piccolo errore un giorno costi solo quel giorno e non avrà impatto nel nostro futuro.
Pensare che deviare dai nostri valori, da ciò che conta davvero, solo un giorno non avrà un impatto globale, decisivo, nelle nostre vite.
“Il costo marginale di fare qualcosa «solo per questa volta» sembra sempre trascurabile, ma il costo globale, di solito, sarà molto maggiore. Eppure, inconsciamente, il nostro istinto ci porta ad applicare la dottrina del costo marginale alla nostra vita privata. Una vocina nella testa ci dice: «Lo so che come regola generale non si dovrebbe fare, ma in questa particolare circostanza attenuante, solo per questa volta, va bene». E quella vocina sembra aver ragione, di solito il prezzo da pagare per aver fatto una cosa sbagliata, «solo per questa volta», è incredibilmente basso. Ci convince con l’inganno, e non vediamo dove ci condurrà quella strada, o quale costo globale ne deriverà.” Clayton Christensen
Nessuna azienda si fa deliberatamente superare dai concorrenti. Nessuna si fa fregare il mercato dall’ultimo arrivato. Nessuna perde deliberatamente i propri clienti e dilapida un impero. Sono solitamente piccole decisioni marginali che portano sul baratro.
Funziona così anche nelle nostre vite.
Purtroppo non ci sono segnali luminosi o cartelli con scritto “pericolo”, “decisione importante per la tua vita”. E, tornando alla mia storia, alla nostra storia, non ci sono nemmeno cartelli con un teschio illuminato che dicono “occhio, che questo giorno sarà l’ultimo…”
E questo, ci tengo a precisarlo, non significa vivere alla giornata, banalizzare il “qui ed ora”, fregarsene del domani. Senza progetti a lungo termine, senza sogni con scadenza non abbiamo scampo come umani. Ma pensare di non avere segnali, di non sapere quando una cosa bella sarà l’ultima, collega anzi il presente al futuro, anche se non lo conosciamo.
Quando puoi fare una cosa bella… facci caso
Parafrasando Kurt Vonnegut, il punto è questo: quando puoi fare una cosa bella facci caso.
Il 99% delle volte ci apparirà una cosa marginale, il 99% delle volte sarà comunque decisiva nel prosieguo della nostra vita. Ma l’1% delle volte sarà l’ultima occasione di poter fare un’ultima cosa bella.
Ogni sera è questo che mi dà conforto.
Non ci avevo deliberatamente fatto caso ma è andata così.
Non sono stato furbo ma è andata così.
Fiuu.
L’ultimo giorno insieme, anche se nessuno sapeva sarebbe stato l’ultimo, è stato un giorno pieno.
Senza saperlo, senza farci caso, ci siamo regalati un’ultima cosa bella.
Ogni giorno, anche se la mattina quasi sempre vorrei rimanere a letto, mi attacco a questo pensiero per tirarmi su. Per guardare ancora il sole senza vergognarmi, per provare ad andare avanti senza maledire il mondo e senza pensare che tutto sia finito.
Sembra impossibile, ma un’ultima cosa bella, è potente.
Un’ultima cosa bella è tutto ciò che ti permette di andare avanti.
E un’ultima cosa bella, a volte, è tutto ciò che aiuta ad andare avanti gli altri quando non ci sarai più.
E dunque, qual è l’ultima cosa bella che farai?
…
Soliti aggiornamenti e cose extra.
Io e i bimbi stiamo bene. Andiamo avanti, aggrappati a quell’ultima cosa bella. E a un sacco di cose belle che per fortuna abbiamo vissuto in questi anni.
Sto ricevendo tanto affetto tramite questa newsletter e su Instagram - dove sta andando in scena una mia inedita e inaspettata versione romantica. È il bello del web e dei social; anche se negli ultimi anni, lavorandoci ogni giorno, avevo sviluppato un’avversione, quasi una allergia. Non mi sto ricredendo del tutto, ma sì c’è speranza :)
Grazie a chi si prende tempo per leggermi, scrivermi, lasciare un like per dire “ti vedo”.
Spero di ricambiare aiutando un filo chi ha già fatto i conti con la morte, ma sente di avere tanto in sospeso. E magari aiutare anche chi, come tutti, si trova ogni giorno a fare i conti con la vita.
Un grazie dolce e vero a Michela Spagnolo che da amica, e con After, mi sta aiutando in questo momento così nuovo e per il quale nessuno è preparato. Mi farebbe piacere condividessi Afterproject con chi sta vivendo un lutto, una situazione di fine vita, con chi è rimasto solo o si prepara a dire addio.
A presto, Davide.
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Il suo tavolo speciale….. erano giorni che ne parlava……le sue due ultime storie su Istagram sono state il momento in cui lo ha caricato sulla macchina con Lucky e poi Nicolò e Giorgia che giocavano a biliardo…..le ho scritto in Direct “No vabbè muoio di invidia”……lei non ha risposto…..non era da lei……anche solo con la faccina che ride……ma mi avrebbe risposto……poi purtroppo ho capito il perché…….è difficile vivere e godere di ogni piccola cosa……non pensi mai che potrebbe essere l’ultima……ci penso spesso, mi sforzo di farlo, poi le altre cose, la vita frenetica prende il sopravvento…….
E dunque, qual è l’ultima cosa bella che farai?
La vita è folle ... la follia è che non saprai mai quando farai l'ultima cosa bella per te o per chi è intorno a te e viceversa ...
E dunque, qual è l’ultima cosa bella che farai?
Spero non sia l'ultima per me\noi intorno a questa "chat" è dirti: grazie.