Il copione è sempre lo stesso. Cinque anni, pigiama da unicorno, capelli che ancora sanno di shampoo. La luce dello schermo riempie il buio della camera. Parte la sigla del solito cartone. Un rumore di fondo prevedibile. Si accoccola contro di me, un peso minuscolo. E puntuale, nel silenzio teso, arriva la voce bassa: “Papi, sai una cosa?”
È il segnale. Il vero film non è sullo schermo. È qui, adesso.
Inizia piano, con schegge di vita quotidiana, una farfalla vista in giardino, un video nuovo su Youtube, il disegno fatto oggi. Poi il ritmo cambia. Le parole rallentano, si fanno esitanti. So che sta per toccare il nodo, quello che non ha nome ma ha un peso specifico. Quello che si posa sullo stomaco.
L'odore dei suoi capelli sempre più vicini. “Non ho sentito bene, amore.” E arriva la risposta. La conosco. È la stessa, identica, ogni volta.
“Lasciamo stare.”
Cinque anni. Cinque anni e già sa come chiudere la porta. Già sa che ci sono parole da non dire, pesi da non sollevare, domande che non vanno fatte.
Non le ho mai detto: “Quando qualcosa è difficile, meglio non parlarne”. Non le ho spiegato, a tavolino, che “Le domande sulla mamma vanno evitate”. Nessuna lezione esplicita su come seppellire emozioni, su come ingoiare parole fino a sentirle grattare dentro.
Eppure l’ha imparato, con la precisione assorbente che hanno i bambini nell’interiorizzare, proprio, ciò che cerchiamo disperatamente di nascondere.
Letto in questi giorni: “i figli non ereditano solo i nostri geni. Ereditano anche i nostri silenzi”. Cazzo, quanto è vero. Cami l’ha ereditata questa cosa qui. L’ha vista in azione, l’ha assimilata, e ora la replica perfettamente, come un virus che muta di generazione in generazione ma mantiene intatto il suo danno.
Non è come il colore degli occhi o la forma del naso. Non è nel DNA e basta. È una pratica. Un addestramento al silenzio. Giorno dopo giorno, guardando noi grandi, impariamo a ingoiare. Impariamo che certe domande debbano restare appese a mezz’aria, come punti interrogativi storti.
Ma non scompaiono. Non davvero. Si depositano dentro. Sono sassi nello stomaco. Sono schegge nella carne. Ogni silenzio non è un vuoto. È un’aggiunta. Un peso che si accumula, distorto e muto, negli angoli bui di quello che siamo, di quello che diventiamo.
È una forma di autodifesa? Paura? Forse. Paura di essere vulnerabili, sicuro. Paura di essere rifiutati. Paura di scoprire che una volta pronunciate, le parole non rientrano più, creano qualcosa che non possiamo controllare.
Il punto non è dire qualcosa ma cosa avverrà dopo. Non il suono delle parole che emetti, ma di quelle che seguiranno. O del silenzio che potrebbe seguire.
L’ho imparato presto anche io. A mordere la lingua per non guastare una giornata tranquilla. Una giornata che tutto sommato stava filando liscia nonostante certe tensioni. A casa, già da bambino. Al lavoro. Succede anche oggi. “No, non è il momento…”
A un certo punto però tutta questa storia cambia. Succede quando ti accorgi che un dopo non sempre c’è. Quando incontri parole scadute. Quelle che non puoi più dire perché la persona a cui erano destinate non c’è più, non è raggiungibile, non è qui. È un fatto brutale, definitivo, che ti investe e non va più via.
Quando Tilli se n’è andata, all’improvviso, due anni fa, in mezzo allo shock è arrivato anche questo. Tutto quello che non avevo detto. Non per mancanza di amore, non per mancanza di tempo. Per quella stupida, criminale convinzione che ci sarebbe stato un “un dopo”. Sempre.
Non una “lista mentale” di rimpianti. Una fitta. Una cosa non detta, una fitta. Cose stupide, come quanto mi facesse ridere il suo modo di cantare (malissimo) sotto la doccia. Cose enormi, come quante volte la sua semplice presenza mi avesse tenuto insieme nei momenti in cui mi sarei accartocciato. Cose quotidiane, come chiederle perché diavolo tenesse tutti quei barattoli vuoti “che possono sempre servire” - e che oggi senza sapere conservo anche io.
“Ma tanto lo sapeva”. Forse. Forse sì. Ma in realtà è una scusa patetica per giustificare la mia reticenza. Le parole hanno un potere. Non sono solo suoni o simboli. Pronunciarle, darle fiato, farle uscire dalla prigione della tua testa è un atto di coraggio. È rendere quella cosa reale fuori di te. È un rispetto per l’altro, e un rispetto, forse ancora più grande e difficile, per te stesso.
Da due anni a questa parte ci faccio sempre più caso a questa cosa. E ogni sera, lì nel buio, con Camilla accoccolata, aspetto e sono terrorizzato da questi momenti qui. Dal film/cartone che nessuno guarda veramente, dalle domande che arrivano nel buio. Quelle che non puoi scansare. Quelle che colpiscono dove fa male. “Papi, ma mamma dov’è adesso?” “Papi, ma lei mi guarda?”
Sono pugni nello stomaco. Ti tolgono l’aria, ti lasciano lì, senza parole giuste.
Succede ogni volta. La sua voce rallenta, diventa un sussurro. Sta arrivando, arriva: “Asp, non ho capito…” dico. Aspetto il suo “Lasciamo stare”.
So che sta imparando da me. Dal mio modo di cambiare argomento, dai miei silenzi che sanno di evitato, dai miei occhi che guardano altrove. Sta imparando l’arte del non detto, la sto addestrando io stesso a costruire barriere che poi, chissà, forse un giorno dovrà abbattere con fatica, e forse passerà a sua volta.
Galit Atlas su questo ha scritto un intero libro: sull’eredità emotiva. Dice che i bambini ereditano anche i nostri silenzi. Lo dice in modo molto più elegante di come lo sto spiegando io. Ma il concetto, nella sua brutale semplicità, è quello: Camilla sta afferrando al volo modelli, senza che io abbia mai avuto bisogno di spiegarle una regola, nemmeno una volta.
Il suo “lasciamo stare” mi suona come una scossa. Ogni volta che lo pronuncia, con quella disinvoltura appresa, capisco che sta già interiorizzando il messaggio: ci sono cose di cui è meglio non parlare. Ci sono domande che è meglio non fare. Ci sono emozioni che è meglio non esprimere. Un’educazione silenziosa al silenzio. La peggiore delle eredità.
Ma l’altra sera.
Ero lì, la mano sulla sua schiena minuscola, in attesa del copione. Ha iniziato a parlare di sua madre. La voce già bassa, la solita chiusura in arrivo.
“Papi, ma secondo te mamma vede che sono diventata grande?”
La domanda, finalmente, pronunciata. Intera. Senza l’eco del “lasciamo stare” che di solito la strozza.
Resto bloccato un attimo. Provo ad articolare qualcosa. Una mezza frase, poco di più. Nella testa partono i calcoli. Le opzioni sul tavolo. La bugia pietosa: “Certo amore, ti vede sempre, da lassù, sorride”. Facile. Veloce. Le dà una certezza, una coperta calda. O la verità nuda e cruda, quella che mi porto dentro io, quella che dice “non lo so, nessuno lo sa”? Posso davvero parlarle di qualcosa in cui non credo, solo per darle conforto? Non sarebbe un altro tipo di silenzio? Un’altra porta chiusa?
Prendo fiato. Cerco il punto minuscolo di luce riflessa nei suoi occhi nel buio. “Amore,” dico, la voce bassa, “non lo so.”
La risposta arriva veloce, tagliente. Appresa. “Lasciamo stare?”
Scoppio a ridere. Una risata che sa di stanchezza e di assurdo. La stringo a me, forte. “No, amore,” le sussurro nei capelli. “No. Non lasciamo stare. Solo... non lo so.”
Lei si stringe ancora di più, il respiro caldo contro il mio collo. Poi, con un sussurro, un’affermazione quieta: “Ok. Lasciamo stare…”
Meravigliosi ❤️ credo che il "non lo so" sia tanto umano, dobbiamo permettercelo di più, apre cammini. Un abbraccio enorme
Chissà. Forse Cami è ancora più forte di te e più pronta ad approfondire. I bambini fino a una certa età non hanno bisogno delle nostre difese (e forse non me avrebbero mai bisogno, se non osservassero le nostre paure e i nostri dolori). Un babbo che piange e non nasconde il suo dolore, e che mostra come lo sta affrontando, sarebbe stato un modello di ruolo che mi avrebbe evitato tante storture. Considerazioni troppo egoiste da parte mia?