Il dolore che ti capita
Spesso, e ancora più spesso nei momenti bui, credere che non vi sia nessun piano è un buon piano.
Fa un caldo che si appiccica addosso, di quelli che ti fanno desiderare l'inverno anche se sai che poi ti lamenterai del freddo. Il divano sotto di me ha conosciuto giorni migliori. Sembra uno di quei veterani pieni di cicatrici, con l'imbottitura che sbuca qua e là come un segreto che non riesce più a trattenere. Le zanzare, piccole stronze volanti, ronzano con una cattiveria che sembra personale.
Luglio 2006. Quasi mezzanotte. C'è un'elettricità strana nell'aria, un misto di speranza e paura che mastichi a vuoto, come una gomma senza più sapore. Gli amici intorno sono carichi a molla, un fascio di nervi e adrenalina.
Io no. Io sono sprofondato qui, in questo buco nero di cuscini sformati. La stessa sensazione di quando suona la sveglia e sai che dovresti alzarti per andare a scuola, o al lavoro, o semplicemente affrontare un'altra giornata, ma l'unica cosa che vuoi è sparire sotto le coperte.
"Davi… che fai? Non guardi?" La sua voce. Tilli. "No. Non ce la faccio. Guarda tu." La mia, soffocata dal cuscino premuto contro la faccia.
Sento la sua mano cercare la mia. Gliela porgo senza guardare. Lei la afferra, la stringe. Io la stritolo quasi, come un bambino aggrappato all'unica cosa ferma mentre il mondo gira troppo veloce. Quel bambino sa che la puntura arriverà, non può scappare, ma almeno può chiudere gli occhi.
Fabio Grosso, là in Germania, di tutto questo dramma tascabile non sa nulla. Fa il suo mestiere. Corre, prende la rincorsa. Silenzio irreale per un istante.
Poi l'esplosione. "GOOOOOOAL!"
La casa trema. Urla da fuori, clacson impazziti, trombette, il fruscio sintetico delle bandiere sventolate dai balconi vicini. I cani – non questi, altri cani, in un'altra vita – che abbaiano come se fosse Capodanno. Il telecronista che perde la voce.
Ma io sento solo lei, vicina, che mi scuote. "Daviii… Davi… abbiamo vinto!"
Salto su, ancora aggrappato a un cuscino come a un salvagente. Un riflesso condizionato. Mi sento come se avessi ripreso conoscenza in quell'istante. Intorno è il delirio: abbracci sudati, birra che vola, altre urla.
Resto un corpo estraneo per un attimo. Vorrei far parte di quella gioia, ma il cervello è ancora impastato. Come quando ti svegli di soprassalto da un incubo, o da un sonno troppo profondo. Ci metti un po' a capire dove sei, chi sei.
Lei continua a urlare di gioia, mi abbraccia, mi bacia. "Abbiamo vintoooo! Campioni del Mondo!" La guardo. Un sorriso si fa strada a fatica sulla mia faccia. Alla fine, mi convinco. O forse mi lascio trascinare. "Abbiamo vinto," ripeto. E poi più forte: "Abbiamo vintoooo!"
Campioni del mondo. Insieme.
Nella scatola impolverata dei ricordi, ce ne sono tante di scene legate al calcio, anche se a lei, in fondo, non fregava poi molto. Giocavamo a FIFA la sera, più per prenderci in giro che per competizione. Le nostre partite uno contro uno in veranda, uno spazio assurdo di due metri scarsi tra vasi di piante, stendini e cianfrusaglie varie. La palla – un Super Tele sgonfio – impazziva, rimbalzava ovunque prendendo traiettorie impossibili. Come la vita, a volte. Ogni tanto, per puro caso, segnava lei. E allora partiva il saltello e l'urlo: "Ronaaaldooo!". Si riferiva al Fenomeno, ovviamente. Io la sfottevo, "Sì, di Ronaldo hai solo il peso...", lei metteva il muso per cinque secondi, poi tornava a tirare calci improbabili finché non segnava di nuovo. E di nuovo: "Ronaaaldooo!".
Le partite vere le ignorava. Tranne Mondiali ed Europei. Lì scattava un patriottismo da operetta, pieno di rituali scaramantici: l'inno cantato mano nella mano, i posti fissi sul divano, parole proibite. Chissà, forse funzionava. In vent'anni insieme, siamo stati Campioni del Mondo e Campioni d'Europa. "Più titolati di Baggio e Maldini", scherzavamo.
L'altra sera, zombie davanti alla TV, becco un'intervista a Lippi. Racconta di quella notte a Berlino. Di sensazioni, intuizioni. "Storie", le chiama lui. Come quella di Trezeguet, che anni prima gli aveva negato una Champions con un rigore sulla traversa. "Mi ha fatto perdere una finale," pensa Lippi prima dei rigori, "adesso me la fa vincere." E Trezeguet la mette sulla traversa. Destino? O quella di Grosso, l'uomo degli ultimi minuti, scelto per il rigore decisivo quasi per caso. "Ma come, io?", pare abbia detto.
Avevo già sentito queste storie mille volte. Ma stavolta mi è salito un pensiero diverso, più stanco: ma basta con 'sta cosa del piano scritto, del disegno superiore.
Viviamo immersi nell'idea che tutto debba avere un senso, un ordine. Che ci sia un piano cosmico, divino o semplicemente narrativo. E se il senso non si trova, ci diciamo di aspettare. Prima o poi il disegno si rivelerà. "Ah, ecco qual era il piano!"
È un'ancora comoda, lo capisco. Ma a volte è solo zavorra.
I bambini, quando racconto di come ci siamo conosciuti, fanno sempre la stessa domanda: "Ma come, se la mamma era più grande?". Il loro intoppo logico è che lei si iscrisse all'università proprio quell'anno, perdendo tempo alle superiori. Sanno la storia a memoria, ma amano sentirsela ripetere: fu una "coincidenza" trovarci matricole insieme, nello stesso corso, proprio quel semestre. Non prima, non dopo.
"Che fortuna," dicono loro. "Che sfiga," penso io a volte, con una punta di amarezza che cerco di nascondere.
Anche noi ci tornavamo spesso, su questa cosa. "Hai visto?", diceva lei, indicando come i casini della sua adolescenza l'avessero portata dritta tra le mie braccia. "Era destino." "No, si chiama sfiga," rispondevo io, per provocarla. E ridevamo.
Oggi, riguardando indietro, la mia vita sembra davvero un patchwork cucito con fili di fortuna sfacciata e sfiga nera pece. Incontro la ragazza giusta, costruiamo una vita, arrivano i figli, i cani, questa casa in campagna che amo e odio. E poi, all'improvviso, senza nessun preavviso, nessun "piano" apparente: boom. Fine dei giochi.
È la domanda che lavora sotto pelle, come un tarlo: la mia più grande fortuna è stata davvero fortuna? O era l'inizio di qualcos'altro? (La risposta la so, ma il tarlo resta).
A volte mi immagino un altro me, in un universo parallelo dove non l'ho mai incontrata. Magari sta meglio. O forse si fa le stesse domande su qualcos'altro. Chissà. Magari scrive pure lui una newsletter lamentosa...
La verità, quella difficile da mandar giù, è che spesso un senso non c'è. Come diceva quel medico, Theodore Woodward: se senti rumore di zoccoli, pensa a un cavallo, non a una zebra. La spiegazione più semplice, spesso, è quella giusta. E a volte, la spiegazione più semplice è che le cose accadono. Punto. Senza un perché, senza un disegno, senza una lezione da imparare.
È difficile ammettere di "non sapere". È come aprire una botola sul vuoto. E allora preferiamo inventarci storie, piani divini, destini, punizioni, ricompense. Qualunque cosa pur di non guardare giù.
Mi torna in mente quella storica americana, Kate Bowler. Malata di cancro, giovane, scrive sul New York Times della sua paura, della sua lotta. E cosa riceve in risposta? Migliaia di lettere. Non solo di supporto. Lettere che le spiegano perché le è successo. Era un piano divino per farla scrivere e aiutare gli altri. Era una punizione per chissà cosa. Era colpa dei cavoletti di Bruxelles mangiati anni prima. La gente, di fronte al suo dolore inspiegabile, non riusciva a trattenersi: doveva esserci una ragione. Lei stessa racconta, con un'ironia amara che conosco bene, di come avesse chiesto alla gente di smettere di cercare spiegazioni, e loro per tutta risposta le spiegavano perché si sbagliava a non cercarle. È potente la frase che riporta del marito, in ospedale, a chi gli diceva "tutto accade per una ragione": "Ah sì? Mi piacerebbe saperla. Vorrei proprio sapere perché mia moglie sta morendo." Gelo. Ecco. A volte le "ragioni" fanno più male del silenzio.
Ma queste storie, queste "ragioni" imposte, a volte, sono tossiche. Ti fanno sentire in colpa per stare male, o ti convincono che chi soffre, in fondo, se l'è cercata.
Non fraintendetemi. Si può trovare forza nel dolore. Si può costruire qualcosa di buono nonostante la sofferenza. Come John Walsh, che dopo l'omicidio del figlio ha creato "America's Most Wanted" e aiutato a ritrovare centinaia di bambini scomparsi. O come Maya Angelou. Ma è un "nonostante", non un "grazie a". È una risposta disperata per non impazzire, una prova di resilienza umana. Non è il compimento di un piano. Chi sano di mente sceglierebbe di cadere per imparare a rialzarsi? Stare in piedi era meglio, cazzo.
Sono passati quasi due anni. Ho smesso di contare i mesi come si fa con i neonati. Dico "quasi due anni", ormai. Ma ogni notte, o quasi, mi sveglio. Il pensiero arriva, puntuale. E l'unica reazione istintiva, viscerale, è sempre quella: "Eccheccazzo".
Non c'è un motivo. Non c'è un piano. C'è solo questa vita, quella che mi è capitata. Sospiro nel buio. Controllo Camilla che dorme accanto a me, mi assicuro che respiri piano, che stia facendo sogni sereni. Il suo calore è un'ancora piccola ma potente. Poi, prima di richiudere gli occhi, sistemo i cuscini dall'altro lato del letto. Quelli che riempiono il vuoto. Perché altrimenti "rotola, rotola... boom", e cadrebbe dal letto.
E il pensiero ritorna: lì non ci dovrebbero essere quei cuscini. Ci dovrebbe essere lei.
Accettare che le cose accadano, che il dolore capiti senza un perché, senza una ragione superiore... è strano, ma a volte è l'unica cosa che ti permette di respirare. Ti toglie il peso della colpa, l'ossessione di capire dove hai sbagliato tu, o l'universo. Quando arranchi, quando ti senti inadeguato, quando ti sembra di non essere all'altezza, ricordarti che non sempre dipende da te, che a volte è solo "il mare troppo forte", aiuta. Non guarisce, non risolve. Ma ti fa sentire meno solo nel casino. Meno sbagliato.
Non c'è nessun piano. O forse il piano è proprio questo: navigare a vista, riparando la barca mentre sei in mezzo al mare, con gli attrezzi che hai. Tenere duro. Restare vero. Anche quando fa un male cane.
Stephen Colbert, forse, l'aveva capita meglio di tutti: «Se qualcuno mi dice che tutto accade per una ragione, lo spingo giù dalle scale e poi gli chiedo: "Capito, la ragione?"» Ecco, magari senza spingere nessuno, ma il concetto è quello. A volte, la risposta più onesta è un silenzio stanco, o un semplice, umano "eccheccazzo".