Problemi di trama
La maggior parte delle persone considera la propria vita come una storia, una narrazione continua con “inizio, metà, fine”. E poi ci sono io, bloccato a metà...
6:50
Baby, so che mi guardi
Anche se la notte è buia
No, non sei come gli altri
Dimmi come sei tu
Una volta c’erano quelle sveglie del cazzo, quelle “bip bip bip” come se stesse per esplodere qualcosa da un momento all’altro. Adesso c’è Alexa, e la musica a darti il buongiorno. Per adesso parte sempre Rose.
Realizzo di non essere più adolescente in un lido d’Estate in qualche giro di bit. Il tempo che entri Guè solitamente.
Baby, tolgo il tettuccio
Tu sei bella, Bellucci
Ho preso fiori, Fiorucci
Sono più G di Gucci
Vabbè. Alziamoci.
Mi piacerebbe essere in spiaggia, dietro un bancone, sudato e spensierato, ad aspettare un Mojito. Ma non è questo il caso.
Un altro giorno.
“Ragazzi, è tardi…” - esortazione decisa ma anche abbastanza soft verso i grandi.
“Amore, tu dormi” - rassicurazione amorevole verso la piccola.
7:00
La mia vita è cambiata tante volte.
A volte in maniera brusca e inaspettata.
Sappiamo tutti di che parlo.
Altre volte cose apparentemente normali l’hanno comunque rivoluzionata.
Una di queste cose è la prima volta che lei arrivò a casa.
Bella, snella, un corpo che pareva d’acciaio. Da urlo.
L’ultimo modello Lavazza: 10 secondi per un ottimo caffè, anche due contemporaneamente se desideravi.
Prima di allora, le mattine erano problematiche.
Certo, non come adesso ma lo erano.
La mattina non solo bisognava trovare il coraggio di alzarsi dal letto, specie quando fa freddo e il piumone è quell’amante dal quale non vorresti separarti mai. Bisognava fare i conti anche con l’acqua, spesso gelida, una pila di piatti e una Moka mai pronta.
Amavamo il caffè, ne prendevamo in quantità industriale, ovviamente era la prima cosa la mattina, ma nessuno dei due si decideva di crescere. E preparare tutto la sera prima di andare a dormire.
La mattina così, i bambini non ancora in periodo di scuola, facevamo a gara.
A chi si fingeva addormentato. A chi rimaneva a letto ancora un po’ e aspettava che l’altro sistemasse tutto sino a quel fischio romantico e quell’odore di caffè che sa salire anche le scale.
La “tecnologia” cambiò tutto.
Adesso chi si alzava per primo lo faceva senza problemi.
L’altro rimaneva a letto ancora un po’ e diceva: “Amore mi fai il caffè?”
“Certo amore”.
Una macchina del caffè è spesso data per scontata. Ma a volte fa magie. Tipo trasformare “Brutto stronzo, col cazzo… “in “Amore e certo amore”.
Ad ogni modo, si sono fatte le 7.
C’è la macchina del caffè, anche se è un modello diverso. L’altra è andata. Come tante altre sue colleghe negli anni.
E non c’è tanto da chiedere e tentennare: il caffè lo faccio io, lo bevo solo io.
“Oh ma siete pronti?”
…
“Ancora…38 anni”
Nonostante i buoni propositi, questa settimana non sono riuscito a condividere in tempo una nuova newsletter. Ho scritto diverse cose, quasi tutte cestinate e senza il beneficio di una possibilità.
E le righe che hai letto sopra.
Mi sono imbattuto in un tizio che aveva scritto qualcosa di simile. La cronaca, molto breve, di una sua giornata a lavoro.
Mi è sembrata un’idea interessante.
Almeno utile per combattere con il foglio bianco; chi scrive, per diletto o per lavoro, sa di cosa parlo.
E ho iniziato.
Per un attimo ho pensato di andare avanti su questa strada, raccontare davvero una giornata intera.
Poi ho pensato che non avrebbe funzionato.
Ne sarebbe venuto fuori un libro. E sarebbe stato poco o niente interessante.
Ma, soprattutto, è successa una cosa.
Mi è apparsa una notifica su Linkedin. Un messaggio di una persona con la quale forse avevo scambiato due chiacchiere tanto tempo fa.
Mi ha scritto dicendo che apprezza questa newsletter. E che l’ha colpito il fatto che nella bio “la mia compagna” sia ancora lì.
Cavolo! Non ci avevo fatto caso.
In effetti anche qui su Substack è così.
C’è ancora lei.
Ed è tutto fermo a quella vita lì.
Ho ancora 38 anni, cinque cani, e “Davide mi chiama solo mia mamma, e la mia compagna quando è incazzata.”
Anche se lei non c’è più. Anche se non c’è più una cagnolina, la piccola Trixie, da qualche mese. Anche se di anni adesso ne ho 39, 40 a Luglio.
Forse hanno ragioni i cultori della produttività. Quelli che dicono in tutte le salse di disattivare le notifiche e lavorare sempre in modalità Deep.
Io non sono mai stato tra questi.
Sono bravissimo a perdere concentrazione.
Saltare da una cosa all’altra.
E farmi portare in giro da una notifica, un messaggio, un pensiero.
Così è saltato il piano “raccontare una giornata intera” e l’invio in tempo di questa newsletter.
Il programma è diventato qualcosa del tipo “fammi pensare”.
Per prima cosa, ho pensato a quelle righe scritte di getto. Quelle sopra che spero abbia letto. La storia del caffè, della macchinetta del caffè.
In effetti ogni cosa mi porta sempre a quella vita lì.
Questione di oggetti, ovviamente.
Gli oggetti, le cose, spiegano il mondo.
C’è ad esempio un libro fantastico, che cito sempre e consiglio a tutti, “50 cose che hanno fatto l'economia moderna” di Tim Harford, che rivela quanto e che tipo di impatto abbiano avuto cose che oggi diamo per scontate: dal filo di ferro al latte in polvere all’Iphone…
Questo perché “le cose” non sono solo cose. Sono cose per fare cose, con le quali facciamo cose e che infine plasmano le nostre vite. E le nostre storie.
A livello macro, gli esempi sono tantissimi: l’aria condizionata, il latte in polvere, la partita doppia, la catena del freddo, i pasti pronti… (come detto, consiglio il libro di Harford).
A livello micro, più intimo, ci sono cose nella storia di ciascuno di noi che hanno avuto un impatto più di quanto immaginiamo. Non fosse altro che non ci fermiamo a spesso a pensare a cosa abbia significato “una cosa” nella nostra vita. Ci appare banale, o almeno scontato.
Quel messaggio mi ha portato a pensare.
Al tempo sospeso. Alle parole ancora lì. Alle cose ancora lì.
Il racconto di soli 30 minuti parlava di cose. Di sveglie, di macchine del caffè.
Cose ma con una storia.
Quella storia.
E anche se non ci penso così spesso, non come prima, non sempre in maniera conscia, sono circondato da cose con quella storia.
Il mestolo per girare il sugo.
“Non quello a cuore” che è per bellezza.
La friggitrice ad aria, che dopo un anno finalmente ho imparato ad usare.
E un sacco di altre cose che sono sempre state in un posto e sono ancora lì.
Ho ancora la camera da letto con le sue cose. Da una parte ci sono i miei vestiti. Dall’altra i suoi. Un paio di Adidas rosa che aveva lasciato sul pavimento. Ancora lì.
Il suo spazzolino. Mille creme viso, mani, e altre che non so bene a che servano ancora lì.
Lo shampoo per capelli ricci. Io li ho liscissimi.
Voltare pagina
A un certo punto mi è parso tutto chiaro: oddio, sono fermo!
Ho pensato se non fosse giunto il momento di aggiornare almeno qualcosa.
La bio?
Tolgo “compagna”?
Almeno tolgo “cinque cani”?
Almeno aggiorno a “39 anni?”
E che dire, delle cose in giro per la casa?
Che dire di quelle creme delle quali non capisco neanche a cosa servono e che incontro ogni mattina?
No, passo.
Direi che non ce la faccio.
Non ancora.
Ma non è solo questo.
Non è solo non avere la forza, o essere pronti, a lasciare andare.
Non è questione di lasciare andare il passato. Più che altro è un problema di “futuro”.
È passato più di un anno.
Tutto sommato direi che me la sono cavata bene.
Con i ragazzi. Con la casa. Persino con me stesso.
Vivo le giornate attenendomi a compiti e obiettivi. Fronteggiando imprevisti e complessità. Penso al passato con nostalgia ma anche gratitudine.
Con il futuro invece è un fottuto problema.
Una volta mi veniva facile pensarci.
Anche in maniera negativa.
Oddio come faremo a…?
Chissà come saremo…?
Ma in ottica di questo… non sarebbe meglio oggi questo…?
Oggi niente. Tabula rasa.
Entro un passo alla volta nel futuro, giorno per giorno (d’altronde è questo il futuro non per forza tra vent’anni) senza neanche accorgermene o pensarci.
Non riesco proprio a voltare pagina.
E, ancora una volta, non è paura di abbandonare le storie, o le cose precedenti.
Un problema di trama.
Ho da poco scoperto che non sono così strano in questo.
Gli umani, a quanto dicono gli esperti, si dividono in due categorie: diacronici ed episodici.
I diacronici, come me, e come la maggior parte delle persone, considera la propria vita come una storia, una narrazione continua con “inizio, metà, fine”.
Ogni “pagina” è collegata alla precedente e a quella successiva.
O dovrebbe essere.
O vorremmo - noi diacronici - che sia.
Il che spiega perché quando i nostri piani vengono scombinati andiamo in tilt.
Perché non lasciamo andare. Perché prendiamo decisioni, non ottimali o stupide, solo perché si adattano alla “storia finora”, quando un cambiamento radicale potrebbe essere preferibile.
E poi ci sono invece gli “episodici”. La minoranza di noi. Forse dei pazzi. O forse illuminati.
Loro non vedono la propria vita come una storia unica e continua. Ogni cosa è slegata, non dipende né da ieri né da domani.
Episodi(ci)
Dopo aver appreso questa storia ho avuto la tentazione di cercare un manuale per diventare episodico. Iniziare a considerare la mia vita slegata, una di quelle serie tv come “Black Mirror” (che pure mi stanno sulle palle e non riesco a seguire).
Andrebbe meglio.
E, ora che ci penso, a volte mi sembra anche di averlo fatto durante quest’ultimo anno.
Pensare alla mia vita come episodi e dirmi, senza grandi risultati ovviamente, “vabbè hai avuto questa, quella esperienza”.
Oggi invece mi capita di passegiare in giardino, o usare “il mestolo a cuore” e chiedermi se la mia vita con lei è esistita davvero.
Mi appare quasi un sogno, un’allucinazione.
Ma poi arrivano pezzettini di quella vita lì.
La macchina del caffè, lo spazzolino, lo shampoo per ricci… e ovviamente i “suoi bambini”.
Non lo so. Non so se vale davvero la pena vivere la vita slegata. Guardare indietro ed etichettare le esperienze della nostra vita giusto come “esperienze”. Non resistere alla tentazione di legare passato e futuro.
Non lo so.
Forse sarebbe più saggio. Forse sarebbe più facile.
Ma forse no.
Forse sta proprio nella nostra natura umana non soltanto provarci, provare a dare senso alla vita e alla nostra trama, ma anche pagarne il prezzo.
E il prezzo è sempre quello lì. Un’etichetta che a volte non si vede, a volte punge dietro la schiena: vulnerabilità.
Il bello e il brutto di essere umani.
Damasio lo aveva detto meglio: “Non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano”.
EXTRA (…dove si parla del non farmi sentire un idiota, e fare qualcosa in più…)
Ci sono quasi duemila persone che leggono questa newsletter. 🙏
È qualcosa di pazzesco, considerando anche i numeri di chi non solo ha cliccato “iscriviti” ma si prende davvero il tempo di leggermi. E molto spesso di rispondermi.
Come spesso ho detto e amo ripetere: mi fa sentire meno idiota nel condividere pubblicamente la mia vulnerabilità.
Spinto da questo affetto, avevo avviato anche un piano per sostenermi via Substack con un abbonamento. Ma non ha funzionato. E non credo possa funzionare.
Ogni abbonamento mi fa stare male. Perché in qualche modo mi riporta sul quel terreno del “ti do questo, tu mi dai questo”. E nella mia situazione non sempre riesco a garantirlo.
Quest’ultimo anno però mi ha insegnato che vivere il lutto richiede un tipo di forza e sostegno che va oltre.
Così come la possibilità di continuare a scrivere questa newsletter.
Per questo motivo, ho deciso di offrire anche un’opzione diversa: una donazione libera - una tantum, non ricorrente.
Un gesto non vincolato da obiettivi specifici o promesse di ricompensa.
Un sostegno diretto, semplice e sincero. Per chi vuole dare una mano e per chi apprezza le mie riflessioni ad alta voce.
Se ti va, puoi farlo da qui.
…
*Non è sempre una questione di soldi.
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Ad ogni modo, se sei arrivato a leggere sin qui, hai già fatto tanto. Poco o tanto che sia hai contribuito a farmi sentire meno solo. Meno idiota.
La storia degli episodi è bella, ma mi sembra quasi impossibile. Chissà perché, ma ho sempre saputo tu fossi dell'84. Ti dedico il prossimo caffè della giornata. ☕