La prima delle donne incinte
Come umanità siamo passati ovunque, un sacco di volte. Da questo punto di vista, nulla è eccezionale. Ma a livello individuale tutto è sempre nuovo, spaventoso, speciale.
Fa male. Però non riesco a smettere.
Come quando inizi a mangiare caramelle, o biscotti ripieni di cioccolato, o chissà cosa, dipende dai gusti. E non solo sai che poi la pagherai, che starai male. No, lo capisci ogni boccone. Hai già quel senso di disgusto che si infila tra un respiro e l'altro. Ma quel pizzico di sapore sulla lingua non ti fa mollare. Dovresti smettere, ma come? E alla fine, mentre ci pensi, mentre cerchi il giudizio e la volontà, ti infili un altro biscotto unto in gola.
Lo so perché mi è capitato mille volte. Nel mio caso sono sempre state le caramelle gommose.
Oggi sono scatoloni pieni di polvere e di ricordi.
Grazie, grazie mille amore.
Questo no, questo no, questo ci può servire, questo poi vediamo.
E questo è il risultato.
Lei non voleva buttare mai niente. Tutto poteva servire, tutto poteva avere una seconda vita, una seconda chance. Forse voleva ciò che volevamo per noi, l'idea di un futuro. Ma c'è anche il fatto che odiava fare.
Aveva un talento naturale nel trovare scappatoie e sfuggire dalle cose noiose della vita.
Ad esempio, usava i verbi a modo suo, "lo sto facendo" era il suo preferito. Che implica che stai facendo qualcosa, che sei in piedi, o piegato sulla schiena a sgobbare, a fare. Ma per lei era un modo per dire "sì, sto pensando che dovrei farlo davvero, e adesso lo farò". Ma non lo faceva mai.
Mezza addormentata sul divano. Plaid che le copriva persino il volto. Le chiedevi qualcosa… “lo sto facendo”.
E quando si trattava di fare ordine, a volte per pigrizia e strafottenza, a volte per speranza e romanticismo, “lo stava facendo sempre” ma alla fine non buttava mai niente.
A volte ci provavo io. Di nascosto. Mentre stava coccolando qualche oggetto inutile e cucendo una scusa perché non venisse buttato via.
Ne approfittavo per fare sparire qualcosa. Ma mi beccava sempre, e vinceva lei.
— Ma sei pazzo? Ma no, questo no!
— Ma a cosa serve?
— Potrebbe servire... Sì, potrebbe servire. Non si sa mai.
Stessa scena. Stesso discorso ogni volta. Per qualsiasi cosa. Si aggrappava con le unghie a qualsiasi cianfrusaglia. Buttare via La Gioconda a Leonardo, in confronto, sarebbe stata una passeggiata.
— Ma a cosa serve?
— Poi vediamo... Che ne sai? Magari poi ci serve.
È così che in vent’anni le cose più inutili del mondo hanno fatto il giro delle case insieme a noi.
Un Nokia 3310, che vabbè quello non lo avrei buttato via neanche io. Una valigia zeppa di francobolli, senza alcun valore, che un giorno scoprimmo essere stampe, fotocopie, neanche francobolli veri e propri.
Due, tre o forse quattro modelli di videoregistratori. Walkman che non funzionavano neanche ai tempi. Il biglietto del cinema di quel film lì. Un foglio stropicciato con su scritto "Ti voglio bene papà". Un altro scritto con "Ti amo, scemo." Chissà di quando, chissà cosa avevo combinato. Un libro di Bruno Vespa, uno di Emilio Fede. Boh.
È così che ancora oggi siamo pieni di cose. Anzi, che sono pieno di cose io. Cose che volevo buttare, che lei non mi ha fatto buttare. E oggi sembrano complici di un piano diabolico per non dimenticare nulla, ricordare tutto, e stare male.
Adesso sono qui, in uno di quegli angoli di casa dove questo genere di cose ama essere occultato, e non riesco a smettere di aprire scatoloni. So perfettamente che questa polvere mi uccide, che ogni scritta su quelle scatole mi fa male - "prima casa", "vestitini", "cose a caso" - ma non riesco a smettere. C'è quel pizzico di dolcezza che contrasta l'acido che sale dallo stomaco.
Come con le caramelle.
"Ancora un'altra dai".
"Cose a caso" sono le più buone, e le peggiori.
Perché non sai mai cosa puoi trovarci dentro.
Sulle scatole "Vestiti Tilli" sai cosa ci trovi. Ci sto lontano. So, non apro. Non tocco. Non butto, ma non voglio vedere.
"Cose a caso" invece è come con quei titoli acchiappa click dai quali non puoi scappare. Come quando leggi "incredibile cosa è successo a quest'uomo che…". Qui suona come "Non ci crederesti mai". A meno che quelle cose non le hai vissute, si intende. Ma io le ho vissute cazzo. "E cazzo sì adesso voglio sapere…"
Come in quel gioco lì: non pensare all’orso bianco. Non puoi NON pensare all’orso bianco. Anche tua figlia che ti passa accanto chiedendo la merenda sembra un orso bianco.
Oppure è come una mano di poker. Sai che lui ha il punto, deve averlo. Bluffa una volta su mille e quello non è il caso. Perderai. Potresti risparmiartelo.
Ma niente, non c’è verso, devi andare a vedere.
Anche se perdi. Anche se fa male.
“Ancora una dai”. Ancora una di quelle scatole "cose a caso". “Vedo”.
La scrittura è la sua. La mia sarebbe stata illeggibile.
E poi chi altri avrebbe potuto scrivere "cose a caso"?
Solo lei.
— Hai scritto cosa c'è nelle scatole, vero?
— Lo sto facendo…
Non lo faceva. Gli scatoloni rimanevano lì per giorni. Poi si seccava a tagliare via lo scotch e guardare cosa ci fosse dentro, e liquidava la cosa così: "cose a caso".
Dentro se le apri puoi trovarci la qualunque.
Dalla copia delle chiavi dell'auto, che poi chissà dov'è finita, alla lana fuoriuscita dai cuscini, anche se magari avevi già comprato dei cuscini nuovi, già imbottiti. Dozzine, centinaia di fotografie venute male. Borse di ogni genere. Ciucci rotti, portachiavi ammaccati, diari di scuola, libri di ricette, lettere mai inviate. Tutti quei regali che parenti e amici ti fanno a Natale, all'ultimo, per cortesia, e non servono a nulla. Una maglietta verde fluo, che proprio non sopportava. E che una volta Niki, per la sua gioia, aveva distrutto versandoci un intero barattolo di vernice.
“Cioè una maglietta vecchia, che non ti piace, che non si può usare, che la conservi a fare?”
Ma d'altronde in "cose a caso" ci trovi qualsiasi cosa. Scemo io, la scatola parla chiaro: cose a caso. Dentro puoi trovarci la qualunque.
Grazie, grazie mille amore.
Questo no, questo no, questo ci può servire, questo poi vediamo.
E questo è il risultato.
Sono ancora qui. Accovacciato a terra, perché dopo qualche minuto ho capito che in piedi, piegato sulla schiena non ce l'avrei fatta, e che sarebbe stata una cosa lunga.
Sono qui come quando da piccolo facevi i puzzle. Tutti i pezzi sul pavimento. Qui con i pezzi ci puoi ricostruire una vita.
"Questa e basta", dico ai muri che ormai sembrano essersi appassionati alla scena.
"Questa e basta" e penso a quale delle scatole "cose a caso" mi convenga aprire. Una lotteria di ricordi.
"Vabbè questa".
"Amico pavimento che dici? Apriamo questa?"
“Apriamo questa dai.”
Estate 2010.
Non c'è scritto ma lo capisco subito. Dalla prima cosa che vedo: un costume osceno che mi aveva regalato quell'estate e che non ho mai messo.
Come quando compri un paio di scarpe e c'è quel foglio sottile sopra, a coprirle.
Qui a salutarmi e proteggere chissà cosa c’è un costume rosa shock. Cortissimo. Elastico in corda. Osceno.
"Il verde fluo per lei era osceno, certo. Questo invece avrei dovuto indossarlo?" - un'osservazione che vorrei fare al termosifone freddo al quale ormai sono appoggiato. Ma mi esce solo "Grazie anche di questo amore".
E poi sotto, come nascosti, protetti, custoditi da quel costume che nessuno avrebbe mai toccato, dei fogli bianchi macchiati di nero e altre macchioline bianche. Non è una conseguenza del tempo, sono proprio così: sono ecografie. Si sente ancora l'odore di inchiostro. Si sente ancora l'odore di lei per quante volte le ha maneggiate.
Estate 2010, ultimi mesi di gravidanza. La prima gravidanza, il primo figlio, l'ultima estate prima di entrare nel club dei genitori.
“Quante possibilità avevo di beccare la scatola dell'estate 2010?”
"Cose a caso". Altro che cose a caso.
Potessi tornare indietro la obbligherei a scrivere chiaramente. Altro che 'lo sto facendo'. 'Scrivi. Scrivi subito.'
"E cosa avresti scritto, sentiamo?"
Mi immagino la scena, forse a volte è davvero capitata.
— 'Non aprire'. Scrivici sopra 'Non aprire'. Con il pennarello quello che non va via.
— Non aprire? Ma perché? Magari un giorno vorremo ricordare... no?
— NO. Scrivi qualcosa tipo ‘Se sei annoiato guarda un film ma non aprire’.
"Cose a caso?" "Inizi". 2010? La prima casa insieme.
Stavamo insieme già da un po', quattro o sei anni. Quattro se tenevi il conto ufficiale, sei secondo i suoi, che contava dalla prima volta che ci eravamo incontrati, e stati insieme, anche se poi per mesi ci eravamo visti quando capitava, senza troppo impegno, almeno per me.
— Sono sei — non accettava repliche.
Ad entrambi comunque sembravano abbastanza per iniziare a fare sul serio.
Andare a vivere insieme era la prima cosa nella checklist. Pagina 1, manuale del "come formare una famiglia secondo lei". "Una famiglia affermata" come ci teneva a precisare.
Anche per bilanciare e farsi passare il fatto del non essere mai entrati in chiesa e detto di sì di fronte a un mucchio di persone.
La ricerca della casa iniziò così.
Ne parlavamo ma non ci avevamo mai messo tanto impegno. D'altronde non era semplicissimo trovare una casa in affitto, non per quelli come noi.
Sui giornali degli annunci le case erano quasi sempre divise tra "vendita" e "affitto", "appartamenti", "ville", "locali commerciali". Non trovavi mai la sezione "case per chi non ha un lavoro vero, pochi soldi, nessuna garanzia"; il nostro caso insomma.
Così sfogliavamo un sacco di annunci ma non telefonavamo mai. Eravamo incoscienti, sognatori, mica stupidi. Sapevamo perfettamente che molte case non ce le potevamo permettere, che molte sarebbero state topaie in posti di merda, e che quelle che ci sarebbero piaciute non ce le avrebbero mai date.
Una sera poi si presenta con un ritaglio con un annuncio con tanto di foto; ai tempi una rarità. "Pagina 2", sempre del manuale "come formare una famiglia secondo lei".
— TaDaDaDan…Guarda — e mi sbatte un foglio di giornale sul naso.
— Una villa? Cazzo Tilli, una villa?
— Aspetta, aspetta... Guarda che bella!
Sì in effetti era bella, nella zona più bella della città. Ed era persino vero: prezzo abbordabile, nessuna garanzia richiesta, già ammobiliata, libera da subito.
Volevano due mensilità anticipate ma in qualche modo i soldi riuscimmo a trovarli. E in una decina di giorni eravamo già lì: a casa, nella nostra prima casa. Adesso sì, una famiglia affermata.
Domiciliata in una casa nella zona residenziale, con tanto di giardino con prato all’inglese, vista sul lago, e sul mare. 45 metri muri compresi forse, ma fantastica.
Anche se non era esattamente una villa. Era un pezzo, di villa.
I geni dei proprietari, non riuscendo ad affittare per intero - o non potendolo fare, come avremmo capito in seguito - avevano avuto un'idea geniale: farla a pezzi.
Un Frankenstein architettonico, ogni parte con la sua storia, e la sua dose di problemi.
Un pezzo a te, la mansarda, ma devi usare le scale d'emergenza. Un pezzo a te, la casa, ma non hai il giardino. Un pezzo a voi: garage trasformato in improvvisata dimora, ma hai il giardino.
— Ma è perfetto! — aveva subito detto Tilli. Quando le piaceva qualcosa non era mai “sì in fondo va bene”: Era sempre bianco o nero, nel suo caso rosa. Tutto perfetto.
— Guarda, possiamo appendere le tende qui per coprire la saracinesca. Qui mettiamo questo, qui quello... oh, e qui? Qui potremmo... no, aspetta. Sì, qui mettiamo il divano.
Io, ero un filo più scettico, ma alla fine piaceva anche a me.
E sì, andava benissimo.
Era piccola ma ci rimpicciolivamo volentieri. E poi, sarà stato il mare, sarà stato il lago, sapeva di libertà, di inizi, di avventure.
Anche se i problemi non mancavano.
Come l'umidità che ti ammazzava. Le infiltrazioni, bombe d’acqua a volte, quando pioveva. Il vento che apriva quella specie di porta in plexiglas all'ingresso, e ti entravano i gatti e impazzivano per uscire. E i cani, i nostri, che impazzivano per prenderli.
Un circo permanente. Uno spettacolo quotidiano di comicità e caos. Ma quale casa non ha problemi? Quale inizio è semplice?
A noi andava benissimo. E sembrava persino potesse continuare. Anche quella mattina del "sì", del test che si illumina di rosa e annuncia un nuovo capitolo, quello da genitori. Credevamo di potercela fare. Di avere tutto in regola, e di poter trovare un posticino anche per la culla.
Noi sì. Il resto del mondo no.
— La culla? Dove pensate di metterla la culla? Sotto la saracinesca?
— Ma non riuscite a capire che qui quando piove, gli piove in testa?
Dopotutto non erano esagerazioni.
E poi i gatti.
— Se c'è vento, quella cazzo di porta si apre, entrano i gatti e saltano sulla culla. E i cani, lo fanno cadere.
— Eh magari potremmo…
Ma neanche il manuale aveva rimedi per queste cose qui. Per pensare di crescere un neonato sotto uno scolapasta gigante.
Poi, da non sottovalutare affatto, c'era anche quella storia legata alla banca.
La casa in realtà era stata pignorata e messa all'asta. E a un certo punto la banca scoprì che la casa era stata affittata abusivamente e iniziò a pretendere il pagamento diretto.
— Voi pagate questo — ai tizi della mansarda.
— Voi quest'altro — ai tizi senza giardino.
Cifre di favore dopotutto, pure più basse di quanto pattuito con i presunti proprietari.
— E noi? Noi che paghiamo?
— Ah già, voi qui… Voi qui beh in realtà non potete stare. Non c'è l'agibilità, non possiamo farvi pagare nulla.
— Ah bene, evviva non si paga neanche l'affitto.
— Sì ma qui non potreste stare.
— Non potremmo o non possiamo?
— Beh… Beh... Tecnicamente, non dovreste...
Tecnicamente non avremmo dovuto fare molte cose. Eppure le avevamo fatte tutte. Questo però, questo era diverso.
— Mi sa che ci tocca trovare casa.
— Ma forse… — cercando nel manuale l'ennesima via di uscita
— Ma possiamo far nascere un figlio in una casa senza agibilità?
Altro che famiglia affermata.
"Cose a caso?"
"Non aprire, non aprire, ci dovevi scrivere sopra"
L'ultimo reperto nella scatola racconta di questa parte qui, quella del trasloco da un garage che amavamo a una casa vera, meno romantica ma molto più grande, e soprattutto agibile.
È un bigliettino di quelli che si usano per gli auguri, per scrivere poche cose, di solito formali, o molto sentite. Di quelli che poi metti in una bustina dove dietro c'è sempre una X che sta per "da" dove ti dichiari colpevole.
Ha i bordi ammorbiditi dal tempo. Una volta spigolosi come montagne, ora docili e stanchi, rassegnati forse. Il bianco è andato via, è tutto giallino, quel giallino lì, delle cose che invecchiano e vengono messe nelle scatole di cose a caso.
"Cazzo, non gliel'ho più dato" penso. Ma vorrei dirlo davvero, a voce alta, e vorrei che ci fosse qualcuno qui a sentire la storia che racconta questo pezzo di carta.
Tutto ingiallito. Ma la scritta si legge ancora perfettamente.
Faleminderit shumë mik
(Grazie di cuore amico). Lo avevamo tradotto con Translate. Scritto a penna, e anche questo ha la sua grafia.
La mia ha sempre fatto schifo, e volevo che questo biglietto si presentasse bene. Doveva essere la nostra riconoscenza verso Elton, allora mio inseparabile compagno di partite di scacchi lampo, discussioni filosofiche sul senso della vita, e lavori faticosi che richiedessero forza e maestria. Come un trasloco, smontare e montare mobili insomma.
Elton era una montagna umana. Che accanto a me faceva ancora più impressione. Sembrava che il fisico gli fosse stato donato per quello. Per spostare pacchi, smontare e montare, picchiare la gente quando proprio non si poteva fare altro. Sapeva fare tutto. Ed era un ragazzo squisito.
Il trasloco del 2010, fatto di corsa, per evitare un figlio in una casa senza agibilità, non sarebbe stato possibile senza di lui.
Quel bigliettino lo ricordava.
Avrebbe dovuto accompagnare una bottiglia di Sassicaia, perché Elton amava il vino quasi sopra ogni cosa. E perché ai tempi io ero uno di quelli che si definirebbe un intenditore.
Alla fine per un motivo o un altro quella bottiglia però non arrivò mai. Una volta non era disponibile quell'annata che volevo, un'altra volta si perse il corriere, infine non avevamo più i soldi per pagare il contrassegno e non la ritirammo mai.
E quel bigliettino rimase lì. In attesa.
— Vabbè, appena possiamo glielo diamo. Gli compriamo quella bottiglia e glielo diamo.
E invece no. Rimase lì. E un giorno, non so quando, lei decise che dovesse finire tra le "Cose a caso". E arrivare qui, oggi, sino a me.
Vedi, forse aveva ragione lei in fondo. Chi se la ricordava più questa storia?
Del biglietto intendo. Il trasloco ed Elton che fa su e giù trasportando ante di armadi lo ricordavo benissimo.
E poi c'è quella scena lì che non avremmo mai dimenticato.
Secondo giorno di trasloco, un passo alla fine. La sera in cui avremmo dovuto dormire nella casa nuova. Senza se e senza ma, perché ormai la curatrice fallimentare si era presa le chiavi e non si poteva più entrare.
— Non si può o non si potrebbe?
Tilli era ormai a fine gravidanza. E il caldo di certo non aiutava. Però faceva avanti e indietro. Spostava cose, montava cose. Sembrava che lei e Elton fossero la coppia, per quanto erano affiatati.
Poi però a fine serata giustamente non ce la faceva più. E andava sempre più lentamente, sempre più piano.
La trovavi sempre meno a girare viti e sempre di più attaccata alla bottiglia d'acqua, spiaccicata su questo o quello scalino della casa; aveva 3 piani, come quella che un giorno avremmo comprato.
Io l'avevo preceduta. Avevo issato bandiera bianca da qualche ora. Per me il trasloco si poteva ritenere concluso da un pezzo.
— Il letto è montato? Dai va bene così. Poi domani sistemiamo.
Elton invece ci teneva a finire. Sapeva che domani sistemiamo significava che lui sarebbe dovuto tornare a spostare e montare. E con tutta la generosità e l'affetto non ne aveva la minima intenzione.
— No, no. Cazzo dici? Finiamo oggi. Finiamo oggi cazzo, dai dai.
Batteva il tempo come in allenamento.
E lo faceva imbestialire vedermi fiacco, avere abbandonato il campo.
Ma soprattutto lo infastidiva che lo stesse facendo anche lei.
Alla fine era lei, più di me, quella che gli dava veramente una mano.
Elton era come in trance. Saliva pacchi, comodini, sudava da fare schifo, non si fermava un attimo, e batteva il tempo soprattutto a lei.
— Dai dai. Monta quello, basta che le inserisci, poi le stringo io.
— Dai dai. I comodini, così montiamo anche quelli.
Dai dai dai.
Ma era stanco anche lui. E a un certo punto perse la pazienza. O meglio, a un certo punto venne fuori al naturale. All'ennesima salita di scale, vedendola ferma, glielo disse senza starci troppo a pensare.
— Oh, va bene tutto... Ma neanche se fossi la prima delle donne incinte…
— Dai, dai, dai.
Lei non disse nulla. Una delle poche volte che non ebbe la risposta pronta.
Poi guardandomi scoppiò in una risata che non finiva più.
— Che personaggio. Ma da dove gli vengono certe frasi?, 'la prima delle donne incinte'...
Elton era così. In due anni di frequentazione assidua, poi sarebbe tornato in Albania e non lo avrei più rivisto, mi fece conoscere una serie di frasi, modi di dire, parole, che bizarre è dire poco. Era il genere di persona che parla senza starci a pensare. Oggi probabilmente gli diagnosticherebbero di sicuro qualche sfumatura di autismo. Ai tempi, beh ai tempi si definiva “sincero”. Era il genere di persona che non fingeva di essere interessato in una chiacchierata. Diceva “non mi interessa” e andava via. O che se non capiva cosa stessi dicendo te lo diceva chiaro e tondo. Che il suo interlocutore fosse la vecchietta al supermercato, il poliziotto che ti ferma in strada per controllare che sia tutto in regola, un potenziale cliente, quando non capiva lo diceva. A modo suo. “Mi farei un buco nel naso se avessi capito”, diceva. Era quel genere di persona lì. Con frasi a effetto, fendenti verbali per ogni occasione.
Niente batte però quella frase lì. Uscita dritta nonostante il fiatone: "Neanche se fossi la prima delle donne incinte…"
…
Peccato esserci persi di vista.
Per un attimo però me lo immagino qui che mi guarda, mentre sono spiaccicato a terra, come quando da piccolo facevi puzzle, e hai tutti i pezzi sparsi sul pavimento. Frammenti di vita, vita in pezzi, non sai come continuare.
Me lo immagino che mi guarda dall'alto, e spara:
"Oh, va bene tutto… Ma neanche se fossi il primo uomo al quale è morta la moglie…"
"Oh…"
"Dai, dai, dai"
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"Usava i verbi a modo suo, "lo sto facendo" era il suo preferito".
Eccomi, anch'io. E la dolcezza, intrisa di ricordi e malinconia con cui descrivi attimi, è da brividi. Complimenti, e ti abbraccio forte
Che meraviglia! La tua scrittura, se possibile, invecchia come un buon vino (o forse è solo un modo di dire: l'esperto eri... sei... tu). Intrisa di vita e di emozione, che mi si appiccicano addosso, neanche fossi il primo dei lettori.